di Laura Colombo e Sara Gandini
“Che cosa vuole una donna?” si chiede Freud davanti all’enigma del desiderio femminile, domanda che da allora attraversa la storia e che gli uomini hanno interpretato in modi diversi, raramente mettendosi in ascolto di lei. L’emancipazione, che assimila le donne a un gruppo sociale svantaggiato e oppresso, è la classica risposta assunta dalla sinistra progressista. Non si può essere più lontani di così dal desiderio femminile. Già nel 1942, Sibilla Aleramo scriveva: «Stranezza e tristezza degli equivoci che si perpetuano! Il femminismo sorse per la coscienza di un malessere diffuso e oscuro: ma quasi immediatamente batté false strade. Si credette che l’emancipazione della donna consistesse nell’emulare l’uomo… rifiutandosi di riconoscere la legittimità di una interiore autonomia e ricercare i modi per effettuarla. Se si trattasse invece di somigliare a se stesse? Se fosse tutto in noi da creare, da estrarre alla luce?». Così dalla fine degli anni ’60, volendo cambiare il mondo, le donne hanno iniziato a cambiare se stesse, in una relazione privilegiata donna con donna. Ecco che la lotta femminista diventa movimento di appropriazione di sé e della propria vita, diventa politica che mira a cambiare il senso comune della cultura corrente, perché la libertà femminile sia accettata e vissuta come un guadagno per tutti. Non è essenzialmente una questione di diritti e parità (parità con chi?), ma di simbolico, linguaggio, significati che circolano. Come ha scritto recentemente Luisa Muraro criticando le scelte editoriali di Internazionale, «il femminismo convenzionale è conforme al capitalismo perché promuove parità in vista della competizione e del profitto. Obiettivo che può durare all’infinito perché la parità è un miraggio.» (http://www.libreriadelledonne.it/la-fiducia-delle-donne/)
«L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo di scoperta di sé da parte della donna. La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli» scrive Carla Lonzi negli anni ’70. Porre l’uguaglianza come orizzonte politico significa assumere una prospettiva limitata e limitante. L’orizzonte più in grande non ha paura della differenza, anzi, traduce la retorica della discriminazione femminile in qualcos’altro, puntando sul quel “di più” che le donne sanno mettere in gioco. Sempre Carla Lonzi scrive: «La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia. Approfittiamo della differenza!».
Questo è l’orizzonte della politica delle donne, che oltre alla parità guadagna libertà, giustizia e felicità attraverso un ripensamento radicale delle relazioni tra donne, della forza che ne deriva, del proprio valore e delle scelte che hanno più senso. Quello che la sinistra non capisce è che il femminismo italiano non è un prolungamento del femminismo dell’Ottocento, non è l’emancipazione femminile, che tanto piace ai progressisti (e ne accomoda gli animi), non è rivendicazione di diritti o desiderio di spartire il potere. Per il femminismo, o meglio, per il femminismo radicale, “donna è bello”: le donne esistono, non sono una creazione del patriarcato, del dominio sessista.
Le “politiche di genere” attuali sono un modo molto vago e deformante di riferirsi al desiderio di libertà femminile. Il linguaggio che usiamo per nominare le cose non è mai del tutto innocente e senza effetti. Per le istituzioni il movimento delle donne si traduce nella richiesta di parità e la risposta diventa il cosiddetto “femminismo di Stato”, che considera discriminatorio ogni segno di differenza sessuale e mette al centro della sua azione la parità della donna con l’uomo e la spartizione del potere tra donne e uomini. Il femminismo radicale, al contrario, afferma la possibilità e la necessità di un agire politico che non si basa sulla ricerca del potere. La politica dei diritti presuppone sempre un potere che può farli valere, e che può decidere, a un dato momento, che non valgono più. La politica basata sulla relazione, invece, è quella che può modificare gli atteggiamenti profondi delle persone.
Il femminismo di Stato, che oggi è diventato il neo-femminismo sostenuto dai media mainstream, preme per la spartizione del potere politico attraverso il meccanismo delle pari opportunità e delle “quote rosa”, cose che piacciono tanto alla sinistra. Pensiamo alle lotte per avere il 50% di donne nei CdA o al parlamento, una risposta istituzionale all’avanzare del protagonismo femminile.
Il femminismo radicale, in continuità con quello degli inizi, vuole dare un senso libero alla differenza sessuale e vede nell’affermazione concreta della differenza femminile (pensiamo ai dati sulla maggiore scolarizzazione delle ragazze, alla presenza femminile di qualità nel mondo del lavoro e dell’associazionismo) una premessa per restituire protagonismo a donne e uomini, contro il sistema di potere. Il punto essenziale è la forza simbolica di un’autorità non più identificata con il potere. Per capirlo possiamo pensare alla scuola di base, materna e primaria, dove ci sono insegnanti che si fanno carico dell’alfabetizzazione di bambine e bambini e delle tematiche interculturali, un lavoro che è stato penalizzato anche dai governi di sinistra, ma che sappiamo essere immenso e disconosciuto, volto all’inclusione, che lavora sui pregiudizi e le obiettive difficoltà quotidiane di bambini e genitori. È un ruolo di mediazione sul territorio di inestimabile valore, che civilizza e previene le tensioni che le amministrazioni faticano ad affrontare e che si potenzia con la partecipazione sempre più attiva di madri e padri nell’impresa della scuola. Noi proponiamo in primo luogo che questo lavoro ben fatto venga visto e valorizzato, che si sappia e si riconosca, perché troppe volte ci siamo ritrovati con nuovi ministri (destra e sinistra in questo sono alla pari) che hanno imposto riforme, ignorando le risorse e le risposte che già c’erano.
Il femminismo radicale punta a un cambio di civiltà a partire dai contesti in cui si vive quotidianamente, facendo leva sull’amore per la libertà femminile, ovvero libertà di pensare e agire in rispondenza ai propri desideri, e scommettendo sulle relazioni donna con donna. Ci riferiamo a La politica del desiderio, così come è stata raccontata in un libro bello e profondo da Lia Cigarini (Ed. Pratiche, 1995). L’accettazione, da parte di una donna, del proprio desiderio sorgivo fa parte di una scommessa radicale della nostra civiltà, perché il desiderio femminile per secoli è stato subordinato e represso. Il primato del rapporto tra donne è una delle intuizioni all’origine della pratica femminista del fare società femminile, insieme alle genealogie, all’ordine simbolico della madre e al privilegio di nascere dello stesso sesso della madre. Rispetto al “siamo tutte uguali” della sinistra progressista, che appiattisce e neutralizza, preferiamo ragionare su cosa capita quando vediamo presentarsi un’altra donna che ha qualità particolari, che ha un’idea illuminante, una che si fa rispettare e sa fare ordine dicendo la cosa giusta in faccia a chi sta sbagliando, una che inventa qualcosa di buono. Noi vogliamo che venga riconosciuto il suo valore e chiediamo ammirazione, sostegno, forza, perché il gesto politico di riconoscere all’altra un “di più” crea società femminile, innesca un cambio di civiltà.
È importante saper vedere e valorizzare le qualità delle donne, riconoscere loro forza mettendola in parole quando ci capita di osservarla, anche perché altrimenti lo fa il capitale, e sa farlo bene, come lucidamente scrive Naomi Klein in No logo, sottolineando come gli atti simbolici e culturali hanno un vero potere politico. Le qualità di donne e uomini sono strumentalizzate, fuorviate, ingannate dalla logica del capitale. Il capitalismo mercifica anche la libertà femminile e persino la lotta contro la violenza maschile sulle donne. Questo ne è un piccolo e singolare esempio: recentemente è nata un’impresa che usa le lotte delle donne per pubblicizzare un braccialetto di gomma. Nel messaggio pubblicitario, grazie alla dichiarazione di destinare il 10% degli utili alla realizzazione di progetti sociali, l’impresa strumentalizza l’insofferenza del femminismo rispetto ai media mainstream, che raccontano la violenza sulla donne solo in termini di miseria femminile. Il capitalismo, sensibile ai cambiamenti della società, sfrutta l’esigenza di cambiare l’immaginario sulla violenza sessista, oramai diventato senso comune, rendendola oggetto di mercato: grazie al braccialetto, lei possiederà magicamente la forza necessaria per trasformarsi in un’invincibile eroina. Queste operazioni si chiamano pinkwashing, ovvero una passata di rosa per fare sembrare più bello qualcosa di profondamente grigio, e sono un mercato in espansione. Così nominare la violenza sulle donne diventa un buon messaggio pubblicitario anche per un governo, un partito, una riforma e per il mercato del lavoro, con il terzo settore e i suoi nuovi professionisti dell’antiviolenza. Peccato che al centro del discorso ci siano le donne, ampiamente descritte e trattate come vittime, e mai la violenza e la sessualità maschile.
La lotta per la libertà femminile non ha molto a che fare neppure con quel nuovo femminismo moralista nato con il movimento Se non ora quando, in occasione degli scandali in cui era coinvolto Berlusconi. Così come abbiamo imparato che la contrapposizione tra noi e le donne che subiscono violenza, le vittime, non funziona, respingiamo la separazione fra donne “per bene” e “per male” perché umanamente e politicamente sbagliata. Quando su Facebook si faceva il gioco di assumere identità storiche, nella preparazione delle manifestazioni, evocando i nomi di grandi donne del passato: “Io sono Carla Lonzi”, “Io sono Rosa Luxemburg”, “Io sono Sibilla Aleramo”, noi ci siamo assunte l’identità: “Io sono Ruby Rubacuori” e in piazza siamo scese con il suo rossetto rosso. Noi diciamo che su questi temi la cosa davvero in questione è la miseria maschile e il nesso sesso-denaro-potere, intrinseco alla politica attuale, e non le donne che si vendono.
La sinistra non ha saputo cogliere, nemmeno a quel tempo, l’occasione per cominciare a riflettere sul potere che si fonda su un dominio antico, quello di un sesso sull’altro. Come scriveva Ida Dominijanni, «nessun uomo pubblico è riuscito a dire una sola parola dotata di senso sul rapporto fra le esibizioni sessuali di Berlusconi e la sua concezione della sovranità. È un atto mancato non da poco, nella sinistra istituzionale. Dove il massimo che abbiamo ottenuto è stata l’offerta tardo-paternalistica, o tardo-cavalleresca, dei dirigenti del Pd che scendevano in piazza – cito testualmente – “per difendere la dignità delle nostre mogli e delle nostre figlie”. E la dignità delle altre? E la loro dignità? La dignità degli uomini, a me pareva ben più compromessa della nostra dai comportamenti di Berlusconi». All’epoca degli scandali berlusconiani, in pochi (si trova un’interessante rassegna stampa su questo tema nel sito di Maschile Plurale) sottolineavano la necessità di «riportare a discorso pubblico (e politico) le forme del desiderio maschile (che è più antico delle televisioni del Biscione), l’idea stessa di relazioni, di potere, di libertà», come scriveva Andrea Bianchi. «Dovremmo cercare di farlo insieme in quella dimensione collettiva che è poi la politica. E lo dovremmo fare come uomini prima ancora che come cittadini».
Ritornando alla domanda “Cosa vogliono le donne?” siamo sicure che saranno sempre di più le donne in carne ed ossa a dirlo, se ci poniamo nella giusta attenzione, se modifichiamo i parametri interpretativi e se le donne assumono il proprio desiderio sorgivo e dando valore alle relazioni con le proprie simili. Più che la decrescita economica noi proponiamo alla sinistra di pensare seriamente alla “decrescita del maschio” da tutte le posizioni spropositate che ha preso, mettendo in pericolo l’umanità intera. Ma è importante che le donne prendano il coraggio di dire la loro verità e per questo c’è il femminismo. Dietro questa parola ci sono esperienze, parole, racconti a cui donne e uomini possono attingere, perché le donne possano prendere il coraggio di essere se stesse e gli uomini scoprano la bellezza che regala loro l’avvento della libertà femminile.
Insomma, il femminismo radicale e i desideri delle donne regalano alla sinistra occasioni d’oro per ripensarsi. Speriamo che prima o poi impari a coglierle. A noi piacerebbe recuperare l’orgoglio di poterci dire “di sinistra”, oltre che “femministe”.
Contributo Laura e Sara dal Calendario del Popolo