27 Dicembre 2017
il manifesto

Le parole giuste per raccontare il femminicidio

di Vincenzo Vita


Nei giorni scorsi l’ordine dei giornalisti del Lazio ha promosso un seminario di grande interesse su «Il Manifesto di Venezia: come raccontare il femminicidio».

Quanto mai opportuna un’iniziativa tesa a mettere in discussione il maschilismo imperante nella semantica e nei comportamenti. Tanto più che nella normativa e nella stessa cultura di massa italiane (e non solo) i reati contro le donne sono stati considerati a lungo meno rilevanti, se è vero (lo ha ricordato Silvia Garambois) che fino al 1981 erano ancora in vigore gli articoli del codice Rocco, con tanto di «delitto d’onore», e che si dovrà aspettare il 2013 per vedere finalmente legiferato il “femminicidio”. Solo negli ultimi anni si avranno le convenzioni di Istanbul e di Lanzarote.

Tuttavia, a fronte di un quadro giuridico meno aberrante, permane un’inclinazione profondamente sbagliata nel racconto della violenza, come hanno messo in luce le relazioni del seminario, a partire dalle introduzioni di Paola Spadari, Silvia Resta, Alessandra Mancuso e Luisa Betti Dakli. Si tende ad amplificare taluni particolari raccapriccianti, raddoppiando così il disagio della donna colpita: oggetto spesso di una narrazione del dolore e di una «vittimizzazione» strumentali, con il fine dell’audience o di qualche copia venduta in più. Serafina Strano, recentemente aggredita al pronto soccorso di Catania, ha confermato -con l’incisività del dramma vissuto direttamente-l’urgenza di un racconto non viziato dal voyeurismo o dai luoghi comuni, con il pannicello caldo delle interviste con il viso coperto: a mo’ dei pentiti di mafia. Mentre andrebbe compresa l’enorme difficoltà delle donne a denunciare, a parlare, a superare la tragedia che colpisce gli strati profondi, indisponibili dell’identità della persona. Vittima quattro volte, ha detto la procuratrice aggiunta di Roma Maria Monteleone: degli aggressori, di certi comportamenti delle forze dell’ordine, dei sistemi sanitari, dei media. Non stupisce, quindi, che le denunce non superino il 10/15% dei casi e che, mentre diminuiscono gli eventi meno gravi, aumentano i femminicidi.

Un quadro dei dati è stato offerto da Linda Laura Sabbadini, con riferimenti utili alla comprensione di un fenomeno tanto sottovalutato quanto mediatizzato. La presidente di «Differenza donna» Elisa Ercoli ha evocato la necessità di un approccio nuovo, come la criminologa Luana Conte, e in sintonia con la dirigente penitenziaria Antonella Paloscia. Quest’ultima ha descritto i «sex offenders», vale a dire gli uomini violentatori. La punta estrema e deviante dell’universo maschile, colpevole di sovente – però – di violenza simbolica, anche se non fisica. Verrà istituito un Premio, intitolato alla giovane giornalista scomparsa giovanissima, che molto scrisse sull’argomento, Tania Passa.

 

(il manifesto, 27 dicembre 2017)

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