30 Ottobre 2015

L’Espresso ha visto bene?

di Massimo Lizzi

L’Espresso del 12 ottobre ha annunciato in copertina che le donne hanno perso. Perché a mezzo secolo dalla rivoluzione femminista, le discriminazioni esistono ancora e la coscienza collettiva le dà per scontate, ma non ci sono più manifestazioni di donne che scendono in strada a urlare slogan; inoltre, le ragazze rifiutano di definirsi femministe.

Questo annuncio presuppone l’aspettativa irrealistica di vedere risolti cinquemila anni di patriarcato in cinquant’anni di femminismo. La stessa rivista riconosce che importanti discriminazioni sono state rimosse con l’introduzione del nuovo diritto di famiglia, la possibilità di scelta delle donne sull’aborto e l’abolizione dell’obbligo di dote e della patria podestà solo maschile. Le donne accedono all’istruzione (anche più degli uomini), al lavoro e alla carriera, ma rimangono disparità di salario e di opportunità; le donne sono libere di dire e di fare nella vita privata, ma all’indipendenza femminile gli uomini reagiscono ancora troppo spesso con la violenza e il femminicidio.

Il femminicidio un tempo si chiamava delitto d’onore ed era ancora codificato come tale, con tutte le attenuanti, nelle nostre leggi fino al 1981. Questa è la trasformazione più importante: è cambiato il modo di vedere, nominare, dare valore e significato alla realtà, perché è diventato condizionante o determinante il punto di vista delle donne, l’emergere di una sempre più autonoma soggettività femminile. Così, la disparità e la violenza sono oggetto di inchieste, studi, denunce, iniziative legislative. I giornali che ancora parlano di raptus e di delitto passionale sono spesso analizzati nel linguaggio e criticati.

La coscienza collettiva è contraddittoria: da un lato dà per scontate alcune divisioni di ruolo, dall’altro considera le disparità retaggi in via di estinzione e dà per scontata la parità come realtà già acquisita, ormai irreversibile. Ma non sempre una meta desiderabile.

La parità può essere giocata contro le donne, per esempio quando riserva anche a loro il servizio militare, i turni di notte, l’aumento dell’età pensionabile e tante parificazioni al ribasso; quando propone la conciliazione tra lavoro e famiglia in uno schema nel quale il lavoro produttivo è il valore primo e il lavoro riproduttivo un valore subordinato, vissuto come un ostacolo a cui concedere un adattamento. È un effetto deleterio della parità anche la rimozione della differenza sessuale, per esempio nelle fabbriche dove alle donne è chiesto di adeguarsi a strumenti e abbigliamenti considerati neutri, ma in realtà misurati sugli uomini, come capita a Melfi dove le donne danno battaglia contro le tute bianche che si macchiano per il ciclo mestruale, in realtà inadatte a tutto l’ambiente di lavoro che vorrebbe essere un laboratorio asettico, mentre continua ad essere una fabbrica sporca.

La stessa valutazione di una sconfitta femminile risente molto di una misura di tipo maschile, secondo cui ci sarebbe stata una guerra, una contrapposizione, una partita, poi il fischio finale di un arbitro, quindi un vincitore e uno sconfitto. E sempre secondo questa misura maschile, il termometro della vitalità politica è la manifestazione di piazza, la prova di forza organizzativa, la simulazione della parata militare. Senza grandi manifestazioni, come quelle dei movimenti di lotta e di liberazione a egemonia maschile, non c’è presenza sulla scena pubblica, come fossero ininfluenti tutte le altre forme di attivismo e partecipazione, dalle librerie ai blog.

Nel servizio si legge che qualcuna lamenta una mancanza di trasmissione della militanza femminista dalla generazione degli anni ’70 alle successive, e la imputa al femminismo della differenza, «che ha avuto più visibilità, ha creato una sorta di teologia, producendo un linguaggio oscuro, ostico, moraleggiante. Un modo di parlare, e di tenere separati il mondo di lui e il mondo di lei, nel quale le più giovani non si ritrovano. Ne hanno, anzi, paura e fastidio: se la denuncia della mancata parità le getta nel ruolo di vittime non ne hanno alcuna voglia». Così dicendo, sembra non si sappia di cosa si parla. L’ho imparato anch’io con un po’ di fatica e un po’ di stupore dalla Libreria delle donne: il femminismo della differenza non ha mai cercato la parità, né incoraggiato moralismi, né vittimismi, ha puntato invece sul partire da sé, in relazione con altre, per realizzare il proprio desiderio politico senza farlo dipendere da altri. Forse il femminismo della differenza non è stato poi così visibile o forse l’intervistata (o l’Espresso?) non ha visto bene.

L’inchiesta infatti dà anche una visibilità sproporzionata all’estemporanea iniziativa di Women against feminism, e non tiene conto dell’impegno costante di molte ragazze che non rifiutano affatto di dirsi femministe: il web pullula di pagine e blog di attiviste femministe molto giovani, anche isolate, improvvisate, oppure associate in collettivi, che provano a impostare una loro battaglia contro il sessismo.

Io stesso ho incontrato questo femminismo spontaneo di donne che usano la scrittura sui forum e sui blog, per mettere in discussione il sessismo, nei media, in politica, nel modo di pensare e relazionarsi dei propri interlocutori diretti e ne sono rimasto coinvolto molto di più di quanto non accadeva con il femminismo delle piazze e dei cortei. O perché chiamato ad esprimermi o perché messo in discussione. E anche questo dice di una trasformazione già avvenuta, che può andare ancora molto avanti.


(www.libreriadelledonne.it, 30/10/2015)

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