2 Febbraio 2017

Lettera aperta a Luisa Muraro sul referendum con breve risposta

di Natalia Milan

Cara Luisa,

non posso essere d’accordo con te su Referendum. Ho votato due volte (www.libreriadelledonne.it, 15 dicembre 2016). E dico perché l’esigenza che con te condivido di svincolarmi dal tertium non datur l’ho espressa votando No.

Dal femminismo, in primis da quello della differenza, ho imparato ad allenare lo sguardo intercettando le trame del reale oltre e nonostante certe descrizioni del reale stesso: quei temi di scuola, per esempio, in cui i prati sono sempre verdi contro ogni esperienza che ne abbiamo e contro ogni evidenza, come avvertivi nel tuo magistrale Maglia o uncinetto. In quelle descrizioni l’uso metaforico del linguaggio diventa derealizzante e perde la realtà.

Penso che ci sia una confusione delle coscienze che può prodursi dal confronto con la complessità della realtà. Ma, in questa vicenda referendaria, c’è stata una non ignorabile forzatura confondente operata, tramite il linguaggio, sulla realtà.

Votare sì o no ad un referendum lo prendo come un tertium non datur fisiologico, vincolante ma non di per sé disturbante.

Invece, il tertium non datur con cui mi sono confrontata durante tutta la campagna referendaria, non pacificamente, per cercare una posizione svincolata rispetto ad esso, è stato il tertium non datur sul significato attribuito al votare e al votare no, sulle narrazioni del presente e le descrizioni di scenari da venire, sulla ricostruzione delle motivazioni per il e per il no.

Il tertium non datur più pressante era tra le narrazioni del come ad un cambiamento ineludibile, comunque progressivo, non rimandabile e del tutto necessario così come dato, e del no come espressione di conservazione, immobilismo, cosa da gufi e da screditata prima repubblica. È stata, questa, la narrazione fatta da chi ha promosso la riforma, che ha imposto il suo tertium non datur a partire dall’atto di chiudere il dibattito in parlamento rilanciando ai cittadini e alle cittadine un quesito monoblocco, come anche tu rilevi, su cui non si poteva più discutere, ma solo da prendere o lasciare in base ad una ricostruzione bloccata della storia politica ed istituzionale dell’Italia dell’ultimo quarto di secolo e all’affermata necessità prioritaria di riforme istituzionali da attuarsi comunque e a tutti i costi. Il tertium non datur era nel costruire così le alternative: o far confluire una lettura dei fatti ingessata nel a una riforma con finalità, obiettivi e soluzioni tecniche ingessate anch’esse o dire no alla riforma come se non si ammettessero i problemi, si rifiutasse ogni cambiamento, si scegliesse deliberatamente il peggio della nostra storia e del presente. Rispetto a questa narrazione delle alternative, ho subito sentito l’esigenza di svincolarmi per discutere se questa riforma fosse auspicabile e adeguata; io non ci ho creduto: né nella sua genesi priva del necessario ampio consenso, né nella finalità di privilegiare la governabilità rispetto alla rappresentanza, né negli obiettivi specifici né nelle soluzioni tecniche. Anzi l’ho reputata dannosa.

Ma non basta perché, con un certo uso delle parole, un altro forte vincolo hanno aggiunto i riformatori: non mi dilungo e sintetizzo con la frase da tanti e tante ripetuta che “se non si approva la riforma, andiamo a casa”. Come dici, alcuni/e, non tutti/e, hanno quindi votato con l’ulteriore vincolo del non far cadere il governo (o del farlo, invece, cadere). Ancora un tertium non datur, per scelta e responsabilità del governo promotore della riforma, e un ulteriore vincolo tra alternative così costruite: o votare sì per la stabilità e la governabilità o votare no rischiando di gettare il paese nel caos politico e finanziario.

Alzare la posta in gioco abusando del linguaggio, così descrivo questa operazione. Lo scenario poi non si è mostrato vero; non solo, ma non lo hanno praticato nemmeno i sostenitori: come altamente prevedibile, il Pd ha un ruolo nel governo, Renzi ha subito dato le dimissioni rilanciando di fatto i numeri della sconfitta e giocandoli sul piatto del suo futuro in politica, molti e molte strenui sostenitori della riforma sono ancora nel governo e nelle istituzioni e non sono certo “a casa”. Previsto e prevedibile perché appunto quelle affermazioni erano scommesse verbali, irrealistiche e frutto d’azzardo da giocatori. Fatte in spregio della lingua e della comunità politica che la parla.

Allora per me tertium datur: c’è stata e ho praticato con altri e altre un’altra possibilità, quella di votare o no in base ad altre motivazioni e con un pubblico discorso in campagna referendaria che provasse, pur nella confusione e nelle enormi difficoltà, ad esprimerle e spiegarle, nei discorsi e negli incontri pubblici.

Il tertium datur è stato per me provare a costruire con altri e altre, nei mesi precedenti al referendum, lo spazio per un discorso in cui i termini e le alternative non fossero ingessate per come venivano presentate, ma discusse con attenzione agli accadimenti passati e presenti, alle attese e alle aspirazioni nostre.

Non mi turbava votare come Berlusconi, Salvini o altri: è nelle cifre della democrazia rappresentativa che una minoranza – e ahinoi, per scelta del governo, il sì era proposto come governativo e “di maggioranza” – una minoranza con cui pure si può non condividere molto, giochi un ruolo ed esprima una posizione che è a beneficio di tutti e tutte. È il miracolo della democrazia rappresentativa – per chi ci crede, pur criticandola anche da un punto di vista femminista – e proprio per scegliere che forma di democrazia rappresentativa si votava. Se quindi sul tema del referendum posso ben comprendere il senso del nobile non voto anarchico, per me invece era irrinunciabile votare, votare no, partecipare alla costruzione di quel discorso politico molto complesso che è stato questo passaggio politico, sfilare le trame dei discorsi del potere e di quelli contro il potere che entrambi si costruivano su sé stessi occultando la realtà.

Il tertium datur era sfilare la trama delle affermazioni che l’Italia sarebbe di colpo del tutto cambiata quel 4 dicembre, segnando sì in senso trionfalmente progressivo e segnando no in senso irrimediabilmente regressivo. Il tertium datur era partecipare a quella pubblica discussione prima e immaginare il dopo, il dopo del no che chiamavamo costituente e il dopo in cui ricucire gli strappi di una campagna referendaria in cui tutti e tutte, e no, ci sentivamo minoranza, un po’ schiacciati, soverchiati dagli altri. E questo clima claustrofobico e da fame d’aria è responsabilità politica di chi ha promosso una riforma costituzionale in solitaria, sopravvalutando le sue forze e incurante del danno a tutti/e noi. Qui prendeva il suo senso il mio segnare no in cabina elettorale.

Nell’esito del voto sono confluiti tanti motivi e tante parti. Sarei un’illusa se pensassi, per esempio, che col No ha vinto la mia idea che questa riforma troppo poco garantiva un adeguato controllo del potere esecutivo schiacciando il ruolo delle minoranze parlamentari, delle autonomie locali e rischiando di far nominare alla maggioranza di governo gli organi di controllo (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Csm). C’è stato anche questo nel no, ma insieme a molto altro.

Posso dire che mi è dispiaciuto per gli elettori e le elettrici che hanno provato la delusione della sconfitta di una riforma in cui avevano creduto. Ma per me i due esiti non erano equivalenti: se la riforma fosse stata approvata sarebbe stato ben più che un dispiacere, sarebbe stato un peso sul cuore, per i motivi cui ho accennato. E il passaggio del voto referendario non l’avrebbe resa più digeribile. Come saltare nel cerchio di fuoco e uscirne vivi non rende innocenti. Era legittimo sì, ma non tutto quello che è legittimo è opportuno, non tutto quello che è legittimo è giusto. E se la riforma fosse stata approvata, la sconfitta dei no sarebbe stata più indigeribile di quella dei , perché la riforma nasceva escludente a partire dai promotori fino ai contenuti.

Il successo del No non ha espresso un governo alternativo a Renzi, non avrebbe potuto. Ma la vittoria del No non è solo di partiti, movimenti e pezzi di partiti, ma di tantissimi cittadini e cittadine, organizzati e non, che hanno votato numerosi. Ha vinto un No che non ha eletto un governo, anzi forse una crisi di governo si sarebbe aperta: in questo senso, il No ha scartato dal diktat della governabilità e della stabilità, dei timori per le reazioni dei mercati e delle agenzie di rating. In questo tentare un’altra strada da quella battuta negli ultimi anni, il No, che in tanti/e abbiamo votato non a cuor leggero, è stato coraggioso e ha cercato un cambiamento, anche se non quello stesso cambiamento che voleva chi ha votato : ha scelto e chiesto un cambiamento che non era quello della riforma. Si può pensare che da questa complessità e forse confusione venga un’indicazione politica? Io penso di sì, penso che, almeno in parte, abbia vinto un No politico in senso pieno, che riapre la discussione su ciò che ci accomuna: dalle regole del gioco alle politiche che vogliamo per i prossimi anni. Adesso ancora una volta tertium datur e tocca a noi, che abbiamo scelto il e il no, ricucire gli strappi prodotti dalle scelte altrui. E guardare oltre.

Natalia Milan


Sono d’accordo su molti punti ma: a me pareva che poco o niente nella situazione reale giustificasse una così grande scommessa in favore del no.

Lo dico con il senno del poi?

No, l’ho pensato oscillando tra il sì e il no come tanti/e altri che non trovavano ragioni per votare così o colà.

Chi vedeva nel votare no la possibilità di un oltre, ora ha la possibilità e il compito di farlo vedere. Se ci provate, ci sarò anch’io.

Luisa Muraro

(www.libreriadelledonne.it, 2 febbraio 2017)

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