3 Ottobre 2015
Exibart.onpaper

Lettera aperta a Massimiliano Gioni

di Francesca Pasini
Caro Massimiliano,

Ho visto La Grande Madre, “I like”.

Il soggetto neutro e declinato al maschile dell’artista ha finito la sua corsa. Bello.

Da molti anni penso all’opera d’arte come un soggetto col quale dialogare. Chi l’ha messo al mondo? Chi lo guarda? Artisti e artiste, uomini e donne. Per secoli le donne non erano artiste, ma muse, simboli dell’amore divino o romantico. E anche nella storia recente, rimozione e dispersione del loro lavoro sono “normali”, come hai riscontrato andando alla ricerca delle opere delle artiste futuriste.

Oggi un curatore decide di aprire il dialogo con l’altro da sé e affronta il tema centrale che riguarda tutti e tutte: il rapporto con la madre. Alla Libreria Rizzoli di Milano ti chiedevi se era giusto che fosse un uomo a fare questa mostra. SI’. Se vuoi criticare le gerarchie patriarcali dell’arte. Adrienne Rich avverte che siamo tutti “nati di donna”: saperlo è essenziale per la crescita della soggettività.

E, se le opere sono soggetti, in primo piano c’è la nascita della relazione tra sé e l’altro, sia esso l’opera, l’uomo, la donna che incontriamo nella propria vita e in quella degli altri.

Sembra facile, ma millenni di neutralizzazione del soggetto ha portato a una gerarchia del talento e delle strutture disciplinari. Pittura, scultura, disegno hanno l’A maiuscola, mentre il lavorio manuale ha la minuscola di “artigianato”, per secoli ritenuto espressione delle donne.

Nel secolo breve del Novecento l’arte si è avviata verso frontiere dove “l’artigianato”, analizzando il magma quotidiano e la sua enigmatica ripetizione, ha reso visibile l’angolo emotivo che spezza la linearità. Ci ha messo all’angolo. Da lì si è sviluppata l’attenzione alla performatività della vita e ai soggetti nati dall’arte.

Hai scritto in catalogo che, probabilmente, questa mostra sarebbe stata diversa se non ci fosse stata la coincidenza che stavi per diventare padre. E alla Libreria Rizzoli, hai raccontato che quando hai visto tua moglie Cecilia accarezzarsi la pancia, ti sono venute in mente le Madonne dell’arte occidentale. “ Non so quanto quelle immagini abbiano influenzato Cecilia e me o quanto siano comunque dentro di ognuno”.

Io credo che valgano ambedue le cose.

Come dice Luisa Muraro: “ogni altro, che si presenta in quanto tale, tiene prigioniero qualcosa di te; l’arte sprigiona il tuo intimo, dando forma a un soggetto impersonale, che però non è arbitrario”.

Ecco, allora che in questi giorni a Milano possiamo guardare le madri che hanno sprigionato il sé che Leonardo e Giotto hanno messo al mondo, anche per chi a centinaia d’anni di distanza non pensa alla madre divina, ma alla propria.

Contemporaneamente, alla tua mostra vediamo il difficile processo con il quale donne artiste e alcuni uomini hanno sprigionato il sé del loro rapporto materno. Mettono in luce la difficoltà di accordo tra il proprio essere donne e le regole sociali, spesso insormontabili nel primo Novecento. In questa “impersonalità non arbitraria” scatta il riconoscimento con qualcosa che è rimasto imprigionato per millenni, e che ha influenzato, per negazione e forzata complementarità, la soggettività femminile rispetto al maschile.

La forza di queste immagini sta, per me, nel pronunciare i propri colori nel dialogo con l’altro da sé, cioè i tanti artisti uomini che hanno inventato l’Arte. La domanda è: come essere auctor, avere autorità ed essere autrici. Prima, dopo o senza essere madri. La differenza tra uomini e donne non è uno dei termini ineliminabili del codice binario, ma il luogo dove fare esperienza dell’altro, dove inventare ogni volta un riconoscimento reciproco e mobile. Non è fissato, una volta per tutte. L’opera soggetto, sprigionando qualcosa di me che era imprigionato, riapre il dialogo con l’altro da qualunque epoca venga.

Era dunque necessario che un uomo, partendo da sé e dall’incontro con altre donne a lui vicine, decidesse una mostra che si non si basa sul genere neutro: gli artisti sono uomini e donne. “Il personale è politico” è la sentenza storica del femminismo, potrei dire che il tuo atto artistico è politico. E concordo con il tuo tentativo “di disarticolare la gerarchia dei padri dell’arte a favore di una relazione tra sorelle”.

Io aggiungo quello che ha scritto Luisa Muraro nel libro “L’ordine simbolico della madre” (Editori Riuniti, 1991): l’inizio è saper amare la madre”.

Le artiste in mostra raccontano rifiuti, paure. Nella contraddizione che sprigiona dalle loro figure, appare la necessità di “imparare ad amare la madre”. Una sfida che va oltre l’emancipazione culturale, economica, perché l’ordine simbolico della madre è un metodo per disimparare l’univocità patriarcale e accedere all’origine del dialogo con l’altro.

(exibart. onpaper 91, ottobre novembre 2015)

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