27 Gennaio 2015
il manifesto

Libertà e responsabilità della letteratura (Parigi, 7 Gennaio 2015)

di Giancarlo Gaeta

 

«La vergogna, ecco il sentimento che salva l’uomo». È il protagonista del film Solaris di Tarkovskij a pronunciare queste parole nel momento culminante della sua presa di coscienza della condizione umana. Mi sono tornate in mente leggendo su Le Monde la lettera con la quale quattro insegnanti della banlieue parigina hanno sentito il dovere di assumersi, per la parte che compete loro, la responsabilità di crimini perpetrati da assassini cresciuti nella lingua francese, nelle scuole francesi e che tuttavia non sono stati messi in grado di comprendere e coltivare i valori repubblicani, perché lasciati ai margini di una società tanto consapevole del privilegio culturale quanto refrattaria a riconoscersi nella pluralità.

Di questa situazione nessuno sembra disposto ad assumersi la responsabilità, tanto più sotto lo choc di tanto efferate uccisioni; è più facile ritrovarsi e autogiustificarsi nella retorica del «Je suis Charlie», che guardare in faccia la realtà delle cose fino a provarne vergogna: «Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli, come lo erano gli ebrei uccisi per la loro religione alla porte de Vincennes: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno ucciso i nostri fratelli. Tale è l’esatta definizione della tragedia. In

qualsiasi cultura questo provoca un sentimento che non è mai stato evocato in questi giorni: la vergogna. (…) Affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà dalla responsabilità collettiva di questo assassinio».

Ma non così stanno le cose per gli intellettuali europei propensi a dichiararsi irresponsabili delle conseguenze delle loro opere, persino di quelle dirette e prevedibili. Lo scrittore Michel Houellebecq, profeta dell’islamizzazione prossima ventura della Francia, in un’intervista al Corriere della Sera rivendica la propria irresponsabilità, altrimenti, dichiara, «non potrei continuare a scrivere. Il mio ruolo non è aiutare la coesione sociale. Non sono né strumentalizzabile, né responsabile». Quanto a Charlie Hebdo, la sua insegna è «Giornale irresponsabile».

Alla luce di ciò che è successo, e che si poteva mettere in conto, c’è da concludere che la posta in gioco è così alta, i valori da difendere così decisivi da valere la pena di mettere a rischio la propria vita. Si tratta dunque della libertà; ma come è potuto succedere che libertà e irresponsabilità vadano oramai così tranquillamente insieme, al punto da porre quest’ultima a condizione della libertà d’espressione e dunque del pensiero e dell’arte? All’inizio degli anni quaranta, Simone Weil accusava gli scrittori francesi di essersi resi corresponsabili non solo della disfatta della Francia, ma altresì

della sventura del mondo intero «nella misura in cui l’influenza occidentale vi è penetrata». Tale era per lei la conseguenza, a partire dalla generazione dei surrealisti, di aver «fatto del pensiero non orientato un modello», di aver «scelto come valore supremo l’assenza totale di valore», abdicando così alla funzione propria della letteratura, quella di esprimere la condizione umana indissociabile dall’opposizione del bene e del male.

C’è dunque, ieri come oggi, lo si voglia o no, una responsabilità della cultura nel suo insieme e nella specificità delle sue forme, che non ha nulla a che vedere col moralismo, con la coesione sociale o con la pretesa delle religioni a uno statuto protetto, bensì con la capacità o meno di dare senso al proprio tempo illuminandolo dall’interno, portandone all’evidenza i nodi, le strettoie, le colpe passate e le impotenze attuali.

In discussione non dovrebbero essere i limiti della satira, che è questione quantitativa, bensì la sua qualità in rapporto alla rimozione di ciò che impedisce una chiara visione della realtà delle cose. Il problema non è se sia lecito o meno mettere in berlina Maometto, ma se la satira debba essere fine a se stessa, puro sberleffo, oppure assumersi la responsabilità di demistificare ogni forma di fobia, quelle laiche al pari di quelle religiose, in modo da servire da specchio critico per il proprio tempo.

Ciò che al contrario l’irresponsabilità impedisce è che si giunga a toccare con mano gli snodi drammatici, laddove s’insidia davvero il pericolo, e che si sia messi in condizione di pensare e di assumersi la responsabilità della cosa pubblica, come sono stati in grado di fare gli insegnanti parigini.

Una letteratura irresponsabile non sarà mai in grado di condurre il lettore a fare una qualche esperienza della realtà, dovrà accontentarsi di viaggiare in mondi ad una sola dimensione, quella psicologica.

 

( il manifesto – 27 gennaio 2015)

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