11 Marzo 2014
il Manifesto

Lo sguardo diverso di Antonietta De Lillo

di Alberto Castellano

Non ho scelto di fare que­sto mestiere, in qual­che modo mi sono lasciata tra­spor­tare dagli eventi, dalle com­bi­na­zioni della vita… E mi sono ritro­vata a fare forse il più bel lavoro pos­si­bile, quello di imma­gi­nare  mondi diversi, cer­cando di dar loro una forma e un senso». Così Anto­nietta De Lillo sin­te­tizza come meglio non si potrebbe il suo per­corso arti­stico, pro­fes­sio­nale, esi­sten­ziale e anche morale. Si, per­ché la regi­sta, foto­grafa e pro­dut­trice napo­le­tana è una figura ano­mala nel pano­rama cine­ma­to­gra­fico ita­liano pro­prio per la sua capacità/vocazione a ren­dere corpo unico forma e con­te­nuto, spe­ri­men­ta­zione e rac­conto, opzioni tec­ni­che e sguardo sulla realtà. E da que­sto punto di vista il suo ultimo lavoro La pazza della porta accanto è esem­plare, a comin­ciare dalla sua genesi, la scelta cioè di tor­nare su una grande intel­let­tuale ita­liana come la poe­tessa Alda Merini.

A distanza di quasi vent’anni da «Ogni sedia ha il suo rumore», hai recu­pe­rato il pre­zioso mate­riale «rima­sto nel cas­setto» della lunga con­ver­sa­zione avuta con Alda Merini nella sua casa mila­nese nel giu­gno del 1995. E «La pazza della porta accanto» è un video­ri­tratto che resti­tui­sce inte­gral­mente quell’incontro.

Ho sen­tito che era arri­vato il momento di recu­pe­rare quel mate­riale dagli archivi della Mega­ris. Il pas­sato lo accu­di­sco men­tre guardo avanti e, soprat­tutto, men­tre vivo la dif­fi­coltà del pre­sente. È stato come se ritro­vassi un pezzo di memo­ria che ho già usato. Ho visto il primo docu­men­ta­rio breve su Alda Merini del ’95 come un’introduzione, ho voluto ripren­dere un discorso inter­rotto, si trat­tava di ripo­si­zio­nare il cosid­detto «found foo­tage». La morte di Merini non ha influito sul mio pro­getto che tra l’altro è nato quando era ancora viva, è stato più che altro un atto di fede, volevo cat­tu­rare la poe­tessa con la forza del cinema che è un’arte col­let­tiva che parla della realtà. Per me Merini, Fulci, Novi non muo­iono mai, il nostro cinema rimane, la loro testi­mo­nianza resta, il loro stare al mondo fa il cinema della memo­ria, il loro inse­gna­mento mi rimane, il cinema è memoria.

Napo­le­tana ma «emi­grata» tanti anni fa. Quale è il tuo rap­porto con la città oggi?

Pren­dendo come esem­pio pro­prio la pro­ie­zione di La pazza della porta accanto a Napoli, mi ha fatto molto pia­cere tro­vare l’affetto e il calore di un pub­blico di diverse gene­ra­zioni. Il mio rap­porto con Napoli è molto rispet­toso, Napoli o la ami o la rin­ne­ghi. Io vivo a Roma da tanto ma ho con­ser­vato un legame forte con la mia città d’origine anche se non è facile: mi sento un po’ in colpa, ma rie­sco a guar­darla dal di fuori. Due cose mi hanno sem­pre «osses­sio­nata»: cosa vuol dire essere napo­le­tana e essere regi­sta donna. Li con­si­dero dei privilegi.

A pro­po­sito di regi­ste tu sei una delle pro­ta­go­ni­ste del docu­men­ta­rio «Regi­ste» dedi­cato alle donne die­tro la mac­china da presa. Cosa signi­fica per te essere donna e fare cinema?

Non mi sono mai rico­no­sciuta negli anni­ver­sari obbli­gati come la festa della donna, o nei movi­menti fem­mi­ni­sti; pre­fe­ri­sco che il mio cinema sia con­si­de­rato fem­mi­nile non fem­mi­ni­sta, ho con­di­viso certe lotte ma a volte non mi pia­ce­vano i toni. Non sono d’accordo con tutto ciò che ci mette in una situa­zione di nic­chia al ribasso, mi piace il per­corso fatto per arri­vare alla parità, c’è ancora troppa aggres­si­vità con­tro piut­to­sto che l’impegno per farsi rico­no­scere. In que­sti anni abbiamo assi­stito al ricom­porsi della donna-oggetto, siamo tor­nati indie­tro, c’è stata una regres­sione cul­tu­rale. La donna dovrebbe essere con­si­de­rata come essere umano, un incon­tro tra forma e con­te­nuto. Nel cinema ci sono molte sto­rie al fem­mi­nile, ma si fa ancora fatica a rico­no­scere la com­ples­sità pro­fes­sio­nale di que­sto lavoro.

Dopo i primi film, «La casa in bilico» (1986) e «Matilda» (1990 rea­liz­zati insieme a Gior­gio Magliulo col quale hai fon­dato la società di pro­du­zione Mega­ris, hai pro­se­guito da sola. Un per­corso indi­pen­dente, dif­fi­cile, polie­drico, tra docu­men­ta­rio e finzione.

Ho fatto i film che sen­tivo di fare, ho rac­con­tato le sto­rie che volevo rac­con­tare, ho per­se­guito obiet­tivi pre­cisi pro­teg­gendo con tena­cia e orgo­glio la mia «invi­si­bi­lità». È quella che però mi ha frut­tato negli anni l’attenzione della cri­tica e di una con­si­stente fascia di spettatori.

E ora è arri­vato anche il rico­no­sci­mento del Ber­gamo Film Mee­ting che ti ha dedi­cato una retro­spet­tiva com­pleta del tuo cinema …

La retro­spet­tiva non può che farmi felice tanto più che riguarda anche altre regi­ste euro­pee, rac­chiude un per­corso lungo e arti­co­lato. Ho fatto una car­riera «nasco­sta», la mia «invi­si­bi­lità» ha carat­te­riz­zato tutto il mio per­corso. Mi sento più una cinea­sta «acrobata-funambola» col gusto del peri­colo che una regi­sta vera e pro­pria. Un festi­val rigo­roso e di qua­lità come quello di Ber­gamo ha il pre­gio da una parte di far cono­scere un per­corso e una memo­ria, dall’altra rende visi­bile ciò che è invisibile.

Ti sei spe­cia­liz­zata anche nel video­ri­tratto, e da qual­che anno stai spe­ri­men­tando il film partecipato.

In Ita­lia sono stata un po’ la pio­niera del video­ri­tratto , per­ché già ai tempi della Mega­ris ho capito che col metodo del mon­tag­gio in Avid quando eri costretto a girare molte ore di mate­riali e li dovevi vedere tutti, si poteva fare di neces­sità virtù; scrivi la sce­neg­gia­tura durante il mon­tag­gio, costrui­sci il rac­conto con la tec­no­lo­gia. In quanto al film par­te­ci­pato ho spe­ri­men­tato Il pranzo di Natale con la rete, il vei­colo digi­tale. E ora è quasi pronto Oida (Oggi insieme domani anche) il cui tema è un’inchiesta sull’amore oggi. Si tratta di con­di­vi­dere il rac­conto di più sguardi attra­verso la rete, tutti pos­sono dare dei con­tri­buti su un tema, è un mec­ca­ni­smo di con­di­vi­sione e scam­bio. E con que­sto spi­rito ho inco­rag­giato il per­corso auto­nomo del corto ani­mato di Maria Di Razza For­bici, uno dei fram­menti del film, che in par­ti­co­lare denun­cia la vio­lenza sulle donne. Sta avendo molto suc­cesso in vari festi­val inter­na­zio­nali ed ha avuto una segna­la­zione nell’ambito dei Nastri d’Argento,

Di solito sei impe­gnata su vari pro­getti anche come produttrice.

Si, nel 2014 ho in can­tiere un docu­men­ta­rio Let’s go su Luca Musella, foto­grafo e scrit­tore napo­le­tano, un eso­dato, e sulla sua con­di­zione eco­no­mica e sen­ti­men­tale, la sua crisi, lo sto girando tra Milano e Napoli con la col­la­bo­ra­zione di Gio­vanni Piperno. E poi c’è Morta di soap dal libro di Adele Pan­dolfi un vec­chio pro­getto che final­mente sta per vedere la luce. Ci sono ancora osta­coli, ma non mi arrendo, sento sem­pre di più la neces­sità di rac­con­tare il rea­lity per rac­con­tare la realtà, noi stessi, il rap­porto peri­co­loso con la tele­vi­sione. Pan­dolfi par­te­ci­perà ma ci sarà un’attrice che inter­preta lei pro­ta­go­ni­sta nella vita e nel libro.

Print Friendly, PDF & Email