7 Ottobre 2015
il manifesto

Madre e figlia, memorie condivise

Locarno 68. Chantal Akerman e l’intimo ritratto di «No Home Movie», film in concorso. Un atto d’amore che esige sempre di porsi all’ascolto dell’altro

di Cristina Piccino

Sul palco prima della pro­ie­zione Chan­tal Aker­man ha voluto spie­gare al pub­blico che il suo film ha biso­gno di pazienza e di dispo­ni­bi­lità, e che ci si deve lasciare andare. La voce era quasi alle lacrime, eppure non è certo una regi­sta ine­sperta, o poco bat­ta­gliera sin dai suoi esordi con Jeanne Diel­man, ma que­sto film ha una dimen­sione intima forte, senz’altro dolo­rosa, in cui lei regi­sta si mette aper­ta­mente in gioco.

No Home Movie come sug­ge­ri­sce il titolo non è sem­pli­ce­mente un film «fami­liare» anche se davanti all’obiettivo di Aker­man c’è sua madre che lei — lo intuiamo sol­tanto, non c’è mai nulla a parte un momento con la badante detto fuori dalle loro con­ver­sa­zioni — ini­zia a fil­mare pro­ba­bil­mente sapen­dola malata. La vediamo muo­versi nella casa in Bel­gio dove è arri­vata nel 1938 dalla Polo­nia fug­gendo le per­se­cu­zioni. Pen­sa­vano di essere al sicuro e invece i nazi­sti poco dopo li hanno rag­giunti con il loro piano di ster­mi­nio. Ma que­sto, l’Olocausto, l’essere ebrei come mate­ria fon­dante una sto­ria fami­liare che a un certo punto mette da parte la pra­tica reli­giosa — il padre della regi­sta non vuole che si seguano più le tra­di­zioni — è solo una delle linee narrative.Prima c’è il rap­porto tra la regi­sta e la mamma in cui que­sto entra, seguendo appunto la neces­sità di Aker­man di «rico­struire» una memo­ria sto­rica nell’esperienza fami­liare, ma che è soprat­tutto tene­rezza, amore, con la madre che guarda ancora quella figlia come la ragazza eccen­trica piena di idee bel­lis­sime e un po folli. Che poco importa se non sai cuci­nare per­ché sa fare tante altre cose bellissime.

«Un film sul mondo che cam­bia e che mia madre non vede» lo defi­ni­sce Aker­man No Home Movie — in concorso.

Quando non è in Bel­gio la chiama via skype dall’America, la donna le chiede: per­ché mi filmi? Per dimo­strare che le distanze non esi­stono più risponde la regi­sta. E lei ride, orgo­gliosa di lei, delle sue intui­zioni, pre­oc­cu­pata di man­giare quello che le pre­para per non delu­derla anche se deve sfor­zarsi sem­pre di più per inghiot­tire ogni boc­cone. La donna esce pochis­simo, è stanca, il mondo è la voce della figlia con le sue sto­rie, il suo chie­derle del pas­sato, la sua osti­na­zione a scri­vere una Sto­ria che la madre invece sem­bra non voler sot­to­li­neare. O nella quale non sem­bra tro­vare gli stessi signi­fi­cati. Par­lano della nonna, la madre di sua madre, che forse aveva un amante, quell’amico spe­ciale che l’ha sem­pre aiu­tata. Era una fem­mi­ni­sta prima del tempo dice Aker­man, la madre sor­ride. Poi altri parenti, altri esili, altre fughe. I tede­schi che si impos­ses­sano del Bel­gio e il padre di Aker­man che rifiuta la stella gialla.

E i ricordi della madre della figlia, gli occhi blu quando era pic­co­lina che tutti guar­da­vano incan­tati. L’esterno è l’ombra della regi­sta riflessa nell’acqua tor­bida, sono le lun­ghe fughe nel pae­sag­gio sul con­fine di un deserto. Le domande che riman­gono sospese, e che non sem­pre tro­vano quelle rispo­ste che lei attende.
È anche in que­sta esi­genza di «memo­ria con­di­visa» che la regi­sta si mette in gioco, intrec­ciata in quella dimen­sione amo­rosa intensa, e com­muo­vente nel gesto di voler trat­te­nere istanti, sguardi, sor­risi, presenza.

Lì nello spa­zio con­di­viso dell’attesa in cui il tempo cola imper­cet­ti­bile, men­tre la madre diventa sem­pre più stanca e cerca rifu­gio nel sonno, scorre il movi­mento della vita. Pen­siamo alle ragazze in rivolta, come la pro­ta­go­ni­sta di Aker­man del suo epi­so­dio nella serie anni Novanta Tou­tes les gar­con et les fil­les, poco prima del Ses­san­totto a Bru­xel­les, con l’adolescente che al mat­tino salta la scuola e dalla borsa tira fuori la mini­gonna in cerca del suo tempo, con­tro i geni­tori che impon­gono regole. Negli anni cam­biano i rap­porti, e cam­biamo noi: quale diventa la posi­zione rispetto ai geni­tori, e appunto alla pro­pria sto­ria? Nella cucina dall’aria antica, come appa­iono spesso le case dei geni­tori, le due donne scher­zano, lasciando intuire discus­sioni pas­sate, ed è come se la regi­sta dichia­rasse il suo biso­gno di un rife­ri­mento men­tre la madre sta andando via; di una dimen­sione col­let­tiva di appar­te­nenza e di iden­tità con­di­visa in cui ritro­vare quella parte pre­ziosa di sè, avere delle cer­tezze, poter fon­dare le sue interpretazioni.

E ha ragione Aker­man a dire che al suo film ci si deve abban­do­nare: sono i bordi delle imma­gini che ci per­met­tono di tro­vare il nostro posto, di farci entrare den­tro qual­cosa che sep­pure in forma diversa ci riguarda, un’emozione, una ricerca che per ognuno assume vie pos­si­bili. Quel «madre e figlia»che viene prima di tutto, che inter­roga il pre­sente e il futuro di un’assenza, di una parola negata, di un ruolo da ritro­vare. Tra i salti vir­tuali, la vici­nanza fisica, la stanza da ragazza, si snoda una rela­zione pro­fonda e unica nei con­flitti e nel suo asso­luto, quel tra­smet­tere che esige insieme porsi all’ascolto. Ancora un atto d’amore.

(il manifesto 11.08.2015)

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