6 Dicembre 2013
lepalaisdurire.wordpress.com

Mandela per lettiani (con un’aggiunta sulla violenza)

di Francescomaria Tedesco

Si potrebbe continuare così molto a lungo, oggi nel giorno del cordoglio sincero dell’opinione pubblica mondiale, ma anche dell’orgia commemorativa collettiva, del luogo comune giornalistico infiocchettato da parole che ‘toccano il cuore’ del lettore in cerca del santino di turno.

Questa dei santi, peraltro, è storia vecchia ma solo di recente entrata a far parte della comunicazione politica in modo ufficiale: i candidati alle primarie del Partito democratico sono stati interrogati sul loro personale Pantheon. Matteo Renzi ha un Pantheon un po’ affollato, con dentro Margareth Thatcher e, per l’appunto, Madiba (che la Iron Lady considerava senza mezzi termini un terrorista), al quale il sindaco ha consegnato l’anno scorso il Fiorino d’Oro della Città di Firenze.

Il problema è che quando ti mettono in un Pantheon, quando ti fanno diventare un santo o un santino, o peggio un nonno-di-tutti, si passa dalla cronaca all’agiografia. Non che Mandela non lo meritasse, per la sua vita piena di sofferenza e di lotta.

Ma proprio su quest’ultimo punto sarebbe bene dire qualcosa, al fine di evitare che il vecchio combattente per la libertà sia raffigurato come un leone sorridente e sdentato, una specie di vecchia gloria rimbambita accanto alla quale farsi scattare sciacallesche foto promozionali, o da menzionare quando si vuol fare cassetta.

È successo a molti, è successo anche a Gramsci diventato agli occhi dei giovani studiosi dei cultural studies britannici (e di rimando anche per gli italiani) «la versione sarda di un professore del politecnico di Londra che insegna teoria del discorso» (T. Eagleton, Figure del dissenso, cit., p. 285).

Nelson Mandela ebbe il coraggio di intravedere il vicolo cieco dell’azione non violenta a tutti i costi, e fu uno dei fondatori dell’ala armata dell’African National Congress. Questo dato, al di là degli insopportabili deliri leghisti, non può essere edulcorato, o rimosso, dagli agiografi dell’ultima ora. Fa parte della biografia di Mandela.

Quelli che oggi commemorano Mandela sono spesso gli stessi che stigmatizzano ogni forma di violenza, non solo la violenza verbale delle aule parlamentari  ma anche solo i toni vagamente polemici di qualcuno che abbia il coraggio di dire qualcosa nell’era della ‘conciliazione sociale’ a tutti i costi. Quelli che dicono alla generazione perduta dei giovani e meno giovani che non prenderanno la pensione di stare calmi, di non sfasciare niente, di essere ‘ragionevoli’. Quelli che criticano il risentimento, la rabbia. Quelli che invitano, dalle loro comode posizioni di potere e di sicurezza economica, alla ‘civiltà’.

Ora è chiaro che la situazione attuale, ad esempio in Europa, non può essere paragonata alla situazione del Sudafrica di Mandela. Ma è anche vero ora come allora in gioco sono i diritti, e non meno importanti. Oggi è in gioco la democrazia. Sono in gioco i diritti sociali. Quelli civili e politici. È in gioco il futuro di milioni di persone. Tutti quelli che oggi inneggiano a Mandela dovrebbero ricordare che nel 1985 egli rifiutò — come ricorda Daniele Mastrogiacomo nel miglior articolo di oggi — la libertà condizionata poiché gli avevano chiesto di rinnegare la lotta armata. Sarebbe restato in carcere altri 5 anni. Mandela sapeva di non essere a un pranzo di gala. E non era, come molti di coloro che oggi inondano di lacrime le bacheche dei social network, un rivoluzionario da operetta.

Ciò che voglio dire è che il tema della violenza politica è completamente scomparso dal dibattito filosofico, politologico, giuridico, etico contemporaneo. Certo in Italia ci sono state le BR, se ne è discusso a lungo e nessuno vuole riaprire quel capitolo doloroso. Ma forse proprio memori da quella distorsione, da quella ubriacatura, si dovrebbe partire per superarla, per archiviarla come tale. E per ripensare, con strumenti nuovi, il tema della violenza legittima. Lo ha fatto Luisa Muraro in un suo libro, Dio è violent. Occorre continuare a farlo assieme. Per capire se è proprio vero che non c’è altro, per il futuro, che la delega della forza del soggetto allo Stato (o alle istituzioni sovranazionali). Forza utilizzata, abbiamo scoperto nel corso della storia, per fini nobili e (molto più spesso) molto meno nobili. O se si può pensare di riprendersi, e in che misura, una porzione di quella forza, di quella possibilità di esercizio della violenza, su cui il Moderno si è fondato da Hobbes in poi. Di quanta violenza abbiamo bisogno? si chiedeva Muraro. Ed è una domanda inevasa a cui occorre rispondere.

Ora è chiaro che se non si tematizza questa problematica, senza strizzatine d’occhio da cattivi maestri ma senza partecipare della melassa buonista e transpartitica che in queste ore ricorda un Mandela dimezzato, la violenza ce la troveremo per le strade senza averla capita.

E non servirà liquidare la rivolta come jacquerie priva di coscienza politica, così come non serve oggi liquidare la protesta di pochi intellettuali ancora integri come ribellismo intellettuale delle élite.

Assistiamo sempre più spesso a richiami alla moderazione da un lato, a una reboante retorica della rivolta e della violenza dall’altra. Entrambe le posizioni oggi commemorano Mandela, colui che con la violenza ebbe a che fare davvero, colui che considerava Fidel Castro un compagno in armi.

Forse è bene ricordarselo, è bene ricordarsi le varie sfaccettature del grande Madiba. Che non era una mammola o un leone sdentato o peggio un leone impagliato per le foto coi turisti, ma un combattente e un guerrigliero, che seppe rinunciare alla violenza e portare il proprio paese verso la verità e la riconciliazione.

(lepalaisdurire.wordpress.com, 6 dicembre 2013)

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