22 Dicembre 2016

Milano

di Antonella Nappi

Quando guardo le piante, un giardino, una finestra piena del verde che c’è fuori, tutto in me può rilassarsi e dire: «che bello», che felicità. Ci vuole un incontro tra il desiderio di essere felici e l’opportunità della visione paradisiaca, allora ci si permette di vedere e godere la pace. Anche qualche fiore a volte può bastare, e l’intenzione di rivolgersi a contemplarlo. Altri soggetti da noi vivono, gli alberi, ci danno supporto di compagnia per la loro bellezza e differenza da noi, un’altra storia, un’altra esperienza, mi sdrammatizzano. Dovessi dire di che cosa ho sempre bisogno è di questa alterità che mi permette una ricreazione fisica; anche della alterità che è lo spazio ho bisogno, la dimensione infinita per lo sguardo distacca dal tutto pieno del mio corpo, dei corpi, oggetti, muri, case e crea una nuova prospettiva per me e per il mio pensiero.

La varietà interrompe il pensiero in cui siamo, si fa guardare e così alleggerisce il nostro sentimento, apre cuore e respiro. Ecco perché la monotonia delle file di automobili hanno oscurato tanta parte del rapporto che ciascuno ha con la città e le città. Per favore pace, fateci un poco uscire da noi stessi e dai nostri cechi pensieri!

Secondo elemento, che a dire il vero è il dramma, l’oppressione e la violenza, il comando del potere: l’aria inquinata che filtra dalle grate della tua prigione e tu devi accogliere nell’organismo sapendo che ti fa male. Dovessi dire che cosa è la vita direi che è respirare aria buona. Che cosa vuoi in città? Datemi l’aria. Devo rinunciare alla città? Forse si deve trovare la forza di rinunciare a tutto quello che c’è in città per riscoprire quello che puoi trovare in un posto dove non ti dica l’aria ad ogni respiro: sei prigioniera, sei masochista, sei odiata da tutto quello che ti sta intorno, sei punita per il tuo conformismo, sei usurata e stanca, sei più inquinata di me, col tempo che hai passato qua.

La città deve divenire senza macchine, dice Barbara Meggetto di Legambiente; il territorio deve concede socialità e cultura anche al contadino, diceva Laura Conti, un buon binomio da progettare.

Ma ancora qualche cosa desidero dire: noi non sappiamo quanti servizi si nascondono sotto terra e nelle strade, sotto i marciapiedi e nelle aree verdi, servizi che hanno influenze precise sulla salute dei cittadini, che dovrebbero essere meno vicini, più leggeri, almeno conosciuti. L’elenco di quanti servizi utilizziamo ci stupirebbe, è molto più delle cabine di scambio dell’energia elettrica che in tutti gli angoli porta energia alle vie del quartiere e alle case, e di quelle linee invisibili che le onde radio intrecciano davanti alle nostre facce. Viviamo usando e consumando senza conoscere come! Sapere dove vivi, come e con quali servizi è aprire le menti alla cultura del quotidiano, osservare il nostro ingegno ma anche cosa ti costa in salute tutto quello che risparmi per altre scelte, sapere il prezzo ecologico della vita che chiamiamo economica. È ora di metterci gli elementi su cui ragionare collettivamente davanti agli occhi, i paesani di un secolo fa li sapevano, sapevano dove e come vivevano. Questo terzo progetto vorrei divenisse realtà, una capillare informazione.

Non voglio dimenticare il bello delle case, abbiamo ancora bellissime facciate e quartieri, basta avere in città lo spazio e la tranquillità necessari per poterle osservare, di nuovo il concentrarci sulle minuzie e sull’insieme allontana la congestione mentale, riceviamo il regalo delle generazioni passate e sappiamo che cosa vorremmo lasciare: il bello di un nostro pensiero, il bello di un nostro lavoro, il bello, non la novità.

(www.libreriadelledonne.it, 22 dicembre 2016)

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