1 Agosto 2014
27esimaora.corriere.it

Nelle scuole, con ragazze e ragazzi parlando di amore, sesso, violenza

di Cristina Obber

Ospitiamo Cristina Obber, autrice di Non lo faccio più, La violenza di genere raccontata da chi la subisce e da chi la infligge. Il libro è uscito in autunno  e, nel frattempo, è diventato un sito, o meglio un luogo dove raccontare di violenza, di relazioni, di paure e d’amore. E un progetto con i ragazzi delle scuole superiori. Nato come «momento di ribellione all’impotenza» di Cristina, sta diventando un progetto di formazione al futuro.

Ho visto più di mille studenti negli ultimi mesi. I giovani non sono un’entità omogenea, come non lo siamo noi adulti, come non lo sono le famiglie da cui provengono. Il microfono gira, parlano loro.

La partecipazione è molto attiva ed escono domande e considerazioni che rivelano interesse e un modo di approcciarsi alla vita tutt’altro che passivo. Si percepisce che gli stereotipi di genere regolano molte delle loro relazioni, ma anche che fremono per liberarsene. Si sentono cose che odorano di muffa rifiorita, cose che per chi come me era ragazza negli anni ’80 sembrano uscite dai documentari che Pasolini girava sulle spiagge di un’Italia in bianco e nero.

 

Le ragazze si sentono addosso il dito puntato se hanno più relazioni brevi anziché un rapporto duraturo, soffrono del fatto  che al maschio invece la virilità venga riconosciuta proprio attraverso una libertà sessuale a loro negata.

 

Alcune dicono che nella coppia ci si adatta a fare quello che vuole lui, dalle piccole alle grandi cose. E prevale quella che Lea Melandri definisce la “missione salvifica delle donne”. Un gruppo di ragazze, sollecitate da un’ipotesi di violenza da parte del proprio ragazzo, mi hanno detto che non lo lascerebbero, che cercherebbero di capire perché l’ha fatto, che “L’amore non se ne va all’improvviso!”.

 

Fa male sentire giovani donne che sembrano rassegnate a soffrire, ad avere pazienza, a cercare di prendersi cura di un compagno come di un figlio, ma rincuora che nel contempo siano esse stesse ad essere critiche su questo ruolo che indossano come un abito, non vissuto ma subito. Hanno bisogno di credere che le cose possano cambiare.

 

Anche i maschi sembrano ingabbiati in ruoli da recitare, in ansia per avere una ragazza, anzi, per poter dire di averla, in difficoltà a gestire la rabbia, a misurare i confini dell’altro e del corpo dell’altro.

 

Alcuni sembrano pronti a rapporti costruttivi, ad assumersi e godere anche un ruolo di cura nella propria vita, ma in altri si percepiscono fragilità profonde e un’inconsapevolezza preoccupante su cosa sia la sessualità, vissuta  come azione dovuta, come “Una cosa che si fa”, anziché come occasione di scoperta di sé e dell’altro.

 

In un istituto tecnico Alessio Miceli (ass. Maschile Plurale) ha letto una pagina del libro in cui Marco racconta di come e perché ha fatto violenza su una ragazza di 15 anni. Ha chiesto ai ragazzi di cercare parti di sé in quella visione del corpo delle donne, un corpo senza testa e senza parola. Di dimenticare le cose buone da dire e di guardarsi dentro. Un ragazzo ha detto che nel gruppo è difficile tirarsi indietro, anche in una cosa orribile come lo stupro, che “Sai che è sbagliata, che fa schifo, ma in gruppo potresti fare qualsiasi cosa”. Perché  “Se non hai un carattere forte non riesci a tirarti indietro”.

Si apprezza la sincerità, ma spaventa questa accettazione della possibilità di agire una violenza così cruenta. È un “Può accadere” che va demolito con urgenza!

 

In un liceo due ragazzi mi hanno detto che se una ragazza accetta di essere accompagnata a casa e poi non ci sta, “È un inganno”. E se mi inganni “Non ti puoi lamentare se ti insulto”, perché te lo meriti, perché “È logico!”, perché è così che si fa. Perché si scopa per divertirsi, “Mica siamo sposati che c’è l’amore”, “Mica puoi farti sempre e solo le canne”!

 

Come se la ragazza che si sottrae al copione passaggio = scopare fosse il carnefice, che ti tenta e poi ti toglie il boccone di bocca. Fa inorridire, ma chi ha trasmesso loro questo copione?

 

C’è anche chi rovescia questa immagine disarmante:

In un istituto commerciale stavamo parlando del piacere sessuale che nella violenza di genere ha origine nell’esercizio del potere sulla vittima e che viene meno nello scambio denaro-sesso con una prostituta. “Non è vero!, ha esclamato un ragazzo cercando il microfono, e ha proseguito spiegando che l’80 per cento delle prostitute è vittima di stupro prima di essere inserita nel circuito dello sfruttamento e che dunque andare con una prostituta significa rendersi complici della violenza cui è sottoposta”.

Sarà un caso che in quella scuola alcune insegnanti si occupino da anni di violenza di genere? Forse no. Forse nella scuola si dovrebbero affrontare queste discussioni non su iniziativa di qualche singolo insegnante ma istituendo percorsi di studi che permettano ai ragazzi di acquisire conoscenza e consapevolezza di sé.

 

Ho letto che il padre di Francesco Tuccia ha dichiarato “Ancora mi chiedo perché tutto questo è accaduto a mio figlio”. Avrebbe dovuto dire “Ancora mi chiedo come mio figlio possa aver fatto accadere tutto questo”. Cercare di comprendere il sentire maschile non significa ribaltare le responsabilità né confonderle. Quegli anni che aspettano Francesco in carcere gli dovranno servire per ricominciare dal suo agito ad interrogarsi e ricostruirsi, non a chiedersi di chi è la colpa, perché la colpa di quella violenza è sua. Mi auguro che in questo percorso i suoi genitori sappiano accompagnarlo.

 

E con loro le istituzioni, che sulla rieducazione dei soggetti violenti devono intervenire, per non restituirci gli uomini dal carcere come da un freezer, semplicemente intatti o peggio, incattiviti, con le donne e col mondo che li ha rinchiusi. I progetti rieducativi ci sono, manca la volontà della politica di assumersi le proprie responsabilità.

 

Nelle scuole si respira la sfiducia nelle istituzioni. Nelle forze dell’ordine, nella giustizia, sono gli stessi ragazzi ad invocare pene più severe. Chiedono perché chi compie reati non venga punito. Una ragazza di 18 anni, parlando di femminicidio, mi ha detto: “Se hai un ragazzo violento devi cercare di sopportare e farlo staccare piano piano, perché lo stato non c’è, perché se denunci – con i tempi della giustizia – quello si incazza e fa in tempo a farti chissà che!”.

 

I ragazzi dicono “Lo Stato ci sta togliendo tutto, il lavoro, la scuola, la giustizia!”. Quando parliamo di informazione, media, quando sveliamo cifre e modalità della violenza, si sentono ingannati, e hanno ragione. Grazie ai media (che poco approfondiscono ma che invece con l’utilizzo di terminologie inappropriate cementificano gli stereotipi di genere anche nelle notizie di stupro e femminicidio) la loro percezione dello stupro è molto lontana dalla realtà. Per la maggior parte di loro i casi di stupro sono pochi e per lo più ad opera di stranieri.

I giovani hanno bisogno di onestà!

 

In una scuola una ragazza mi ha chiesto: “Ma ormai che possiamo fare?” Ho risposto che devono e dobbiamo abolire la parola ORMAI dal vocabolario. Che ORMAI rappresenta l’alibi/fregatura per rimanere immobili, per non riconoscere in se stessi il dovere/potere di fare la propria parte sia nel proprio privato che a scuola, in fabbrica, in ufficio. E da subito. Propongo sempre la parola NONOSTANTE, presa a prestito dal libro di Mario Calabresi Cosa tiene accese le stelle. E questa sostituzione attribuisce responsabilità e restituisce speranza.

 

I giovani sono pronti. Dobbiamo solo dare spazio al loro impulso di liberazione. Dare loro fiducia, non solo a parole. Ci sono ragazzi e ragazze che hanno preso consapevolezza della loro possibilità e della loro capacità di farsi soggetti attivi nel cambiamento. Dobbiamo affidarci a loro.

Come Beatrice Serini, 22 anni (dell’associazione Non è colpa di Pandora), che mi accompagna nelle scuole milanesi. In un liceo, dove le studentesse ci hanno invitato ad un’assemblea autogestita, mentre Beatrice leggeva la storia di Veronica, in quella palestra affollata, tutti seduta a terra, c’era un silenzio assoluto; e mentre Beatrice/Veronica spiegava perché non ha denunciato la violenza, perché si sentiva in colpa, perché vorrebbe oggi prendere per mano quella ragazza confusa e sola che era e farsi visitare, avevo i brividi anche io.

 

Negli incontri in Veneto ci saranno con me Alberto Irone, 21 anni, e Anna Azzalin, 20, della Rete Studenti medi del Veneto (che con l’UDI Padova, Venezia e Verona  hanno promosso la campagna “Femminicidio: mettici la faccia”). Sono giovani che parlano ai giovani, di relazioni, di lavoro e di futuro. La consapevolezza significa possibilità di scelta. Solo con la discussione i ragazzi possono dare non solo un nome alle cose che ascoltano dall’esterno, ma anche a ciò che incontrano nei propri pensieri, ai propri sentimenti e alle proprie emozioni.

 

Sentirli parlare di questo tra loro, maschi e femmine insieme, è bellissimo.

Pubblicato l’8 febbraio su http://27esimaora.corriere.it

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