4 Marzo 2016

Non è proibizionismo, è una conquista di civiltà

di Silvia Baratella

 

Claudio Vedovati ha pubblicato recentemente un intervento che ha il merito di rilanciare pregevoli riflessioni ed elaborazioni femministe degli anni ’90 su nuove tecnologie e riproduzione che credo ancora utili e importanti. Vedovati ricorda, citando Maria Grazia Giammarinaro, che a una donna non può essere imposto di essere o non essere madre né dallo Stato, né da un contratto, e che questa affermazione costituisce una mossa interessante con cui il pensiero femminista si sottrae all’«opposizione tra proibizionismo e libertà contrattuale». Poi però il discorso di Claudio prende una strana piega, assimilando di fatto il divieto di far ricorso alla maternità surrogata a una forma di proibizionismo e di messa sotto tutela delle donne che inficerebbe la libertà femminile (il testo, datato 10/12/2015 ma pubblicato il 24/2/2016, è intitolato Maternità surrogata, differenza e libertà e si può leggere sul sito DeA, all’indirizzo http://www.donnealtri.it/2016/02/maternita-surrogata-differenza-e-liberta/).

L’interdetto di commercializzare parti o funzioni del corpo umano, in virtù del quale il sangue e gli organi si donano ma non si vendono, sta anche alla base delle leggi che vietano di ridurre in schiavitù gli esseri umani; non si tratta di una dettagliata regolamentazione proibizionista, ma di un divieto semplice e secco che rappresenta una conquista di civiltà da non abbandonare. È nato dalle lotte contro lo schiavismo e oggi sottrae i nostri corpi al cannibalismo illimitato del mercato neoliberista. Riguarda l’inviolabilità del corpo, in cui rientra e anche la funzione della maternità, come ricordano le parole di Giammarinaro citate dallo stesso Vedovati.

Si può dimenticarlo se si prende come misura di ciò che è umano solo ciò che è maschile, per cui se non si possono comprare il sangue o un rene di un uomo, per analogia non si possono comprare neanche quelli di una donna. Ma dove le funzioni e l’anatomia di lei non coincidono con quelle di lui, la misura maschile non si contrappone alla mercificazione e lascia adito a una legiferazione sulla vita di lei minuziosa e invasiva.

 

Il dibattito attualmente in corso dà invece l’impressione che una misura femminile sia mancata anche tra diverse femministe, oltre ad alcuni uomini vicini al femminismo come Claudio, come se tutte e tutti sentissero che il “naturale” sviluppo dell’affermazione «l’utero è mio e lo gestisco io», che marcava l’inviolabilità e l’inalienabilità del corpo femminile e delle sue funzioni, sia oggi «l’utero è mio e se voglio lo affitto», che al contrario allude alla sua messa a disposizione del desiderio altrui.

Ma cancellare il divieto di commercializzazione di funzioni del corpo non conviene affatto alla causa della libertà femminile e in definitiva neanche agli uomini: i corpi infatti – anche quelli maschili – sono umani perché nati di donna, da una donna nella sua integrità. Rompere il legame tra il desiderio di lei (di avere un/a figlio/a per sé) e le funzioni del suo corpo rischia di fare del male ai figli e alle figlie che nasceranno, già oggi ridotti a prodotti che si possono scartare se non soddisfacenti in alcuni paesi in cui la maternità surrogata è legalizzata.

(www.libreriadelledonne.it, 4 marzo 2016)

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