2 Ottobre 2015
Corriere della Sera

«Non pensiamo a ciò che vogliono gli altri Cerchiamo di assomigliare a noi stesse»

Note di redazione

Cara Roberta, grazie per aver intervistato la grande Judy Chicago, ma un paio di avvertimenti: non si dice “il presidente donna” ma “la presidente”. L’altra cosa che non si può non dire: Christine de Pizan non la conosci tu, ma la conoscono molte, moltissime, almeno due generazioni di femministe. Vieni alla Libreria delle Donne e ti daremo da leggere Alessandra Soleti, Mediatrici di sapienza. Visita regolarmente questo sito.

 

di Roberta Scorranese

Ha costruito una barca. Ha frequentato una scuola per carrozzieri, imparando a dipingere a spruzzo. Ha preso lezioni di pirotecnica. È salita sul ring, indossando guantoni da boxe. Tutto questo nonostante la statura minuta, un fuoco di capelli rossi e un busto da ragazza. A 76 anni, Judy Chicago ha imparato a fare almeno venti lavori che normalmente fanno gli uomini e a dire con sicurezza: «Non assomigliare a quello che gli altri vogliono da te, assomiglia solo a te stessa». Sono parole in apparenza scontate e semplici, ma racchiudono almeno mezzo secolo di vita dedicata all’arte, alle battaglie per i diritti delle donne, ad una poetica spesso scomoda, oggi forse da molti considerata «d’altri tempi», come la parola stessa femminismo. E questa artista americana, tra le pioniere del movimento per l’uguaglianza tra i sessi, non smette di fare quello che fa da sempre: «Raccontare le donne, raccontare quello che hanno fatto e che fanno. Perché la storia le ha oscurate. Censurate». Non c’è una vera rivendicazione ideologica in quello che dice: c’è una continua puntualizzazione, come un folletto rosso che buca i libri di storia e aggiunge nomi, facce, destini, tutti al femminile. Judy è a Milano insieme al marito (il terzo: stanno insieme da trent’anni e ancora oggi, quando si guardano, la complicità sembra materializzarsi), il fotografo Donald Woodman. Una delle sue opere è esposta nella mostra «La Grande Madre» , in corso a Palazzo Reale. «Si intitola In The Beginning , parte della serie The Birth Project – spiega -.

«Sa come nasce? Nel 1982 ho visitato la Cappella Sistina. Una meraviglia. Peccato però che nell’immagine più simbolica della creazione degli esseri umani, quella di Michelangelo, non vi fosse nemmeno una donna. Avete notato che alla genesi, peculiarità femminile, è stato dato un abito maschile? Così ho intrapreso una ricerca: le immagini femminili della creazione sono pochissime nell’arte occidentale». The Birth Project è un grande, variegato lavoro (opere eseguite insieme a cento ricamatrici) sulla nascita come atto «da donna».

Il papà comunista e il primo choc

Judy (il vero nome è Judith Sylvia Cohen: lo ha cambiato per un atto di libertà anagrafica) nasce nella Chicago di fine anni Trenta. La durezza del periodo post-Depressione, una famiglia dai principi liberali e dall’impostazione marxista, che la avvia verso l’indipendenza ma che le procura anche il primo choc. «Erano temi bui, simili al vostro fascismo. La “caccia alle streghe” bollava i comunisti come persone poco per bene e così a scuola sentivo cose brutte su mio padre». Nella Chicago della criminalità vera, delle sparatorie in pieno giorno, questo le accende una coscienza civica, una specie di luce su ciò che è bene e ciò che è male: «I miei mi insegnavano a farmi valere, ad alzare la mano a scuola». Anche questo sembra scontato, ma non lo era nell’America dell’epoca, specie per una ragazza. Ecco, mano a mano che Chicago parla, affiora la vera eredità della parola «femminismo»: cose che noi oggi diamo per scontate (il fatto che le donne vadano all’università, che facciano lavori prima considerati da uomini, che in certi casi siedano in poltrone da dirigente), in realtà sono scaturite anche dalle battaglie di quelle come Chicago. Che ha da sempre affiancato l’attività artistica all’insegnamento: alle ragazze spiega come diventare artiste senza perdere la prospettiva «femmina», uno sguardo identitario. «Oggi, almeno, negli Stati Uniti – continua – molte giovani donne si vergognano a definirsi femministe. Questo non vuol dire che il femminismo sia morto: prendiamo l’attivista pakistana Malala Yousafzai: si batte per l’educazione delle donne, è femminista eccome! Questa parola oggi ha semplicemente più facce, spariglia le carte». Nell’arte, però, il problema rimane: fino al 2006, solo il 5% delle opere conservate dal Moma di New York era stato realizzato da donne; tra il 2000 e il 2006, appena il 14% delle personali ospitate dal Guggenheim era dedicato ad artiste (dati Iulm del 2014). «Quando a Parigi è stata organizzata la prima retrospettiva della pittrice settecentesca Elisabeth Louise Vigée Le Brun – continua Judy – nei manifesti l’abbiamo vista in un ritratto materno, con un bambino in braccio. In una rassegna dedicata a Picasso, invece, vediamo l’uomo, tronfio, con il petto in fuori. Orgoglio di essere maschio, contrapposto alla donna costretta invece in ruoli precisi. Sottigliezze? No, sono segnali che si imprimono nelle culture».

«Trump? È intrattenimento»

Chicago ha dedicato una vita intera a questo, a catalogare le storie femminili, a far luce sulle ombre, ad aggiungere particolari biografici su Christine de Pizan (veneziana, non la conosce quasi nessuno, ma tra il XIV e il XV secolo è stata una prolifica e coltissima poetessa) o su Sojourner Truth (anche lei sconosciuta, eppure è stata un’afroamericana che si è battuta strenuamente per i diritti civili dei neri). Questi sono solo due nomi che compongono la sua opera più famosa, The Dinner Party (oggi la principale attrazione del Brooklyn Museum): una Ultima Cena al femminile in cui, al tavolo, siedono simboli di donne eccezionali, che hanno fatto grandi scoperte, che hanno anche cambiato la storia ma che dalla storia sono state in un soffio dimenticate. Pouf! Che cosa può desiderare, oggi, una come Chicago? Un presidente americano donna? «Lo vorrei tanto, ma non credo che Hillary Clinton ce la farà». E chissà che cosa dirà di uno come Donald Trump, avvezzo alle boutade misogine? Chicago lo liquida con una battuta: «Trump? È semplice intrattenimento». No, forse rimane poco da desiderare. Ha imparato a fare lavori da uomo per dimostrare che non c’è differenza tra Monet e Meret Oppenheim (salvo che per quest’ultima serve una parentesi didascalica: grandissima artista nata nel 1913 e morta nel 1985); ha costruito un rapporto con il marito che farebbe invidia (almeno dall’esterno) a molte. «No, aspetti, una cosa la voglio: un’istituzione ad hoc, un museo dove le artiste dimenticate trovino spazio, curatori e catalogo. Credete che ce ne sia bisogno?»

(2 ottobre 2015) – Corriere della Sera

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