30 Aprile 2016
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Non solo il velo

 In quali altre gabbie vengono rinchiuse le donne?

di Lea Melandri

L’intervista a Laurence Rossignol, ministra della Famiglia e dei Diritti, ha riportato l’attenzione su un tema che ha avuto al centro la Francia dodici anni fa, ma che ha continuato a serpeggiare, più o meno esplicitamente, in tutte le questioni che riguardano il difficile rapporto tra l’Europa e l’Islam (presenza crescente, diventata più inquietante dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles). La legge del 2004, che vietava lo sfoggio nella scuola di «segni o abiti con i quali gli alunni manifestano ostensibilmente un’appartenenza religiosa», benché rispondesse all’idea di «laicità» che prevede la separazione tra lo Stato e ogni forma di confessione religiosa, fondamento per la Francia fin dal 1789, era stata presa, non a caso, come un provvedimento riguardante in particolare il «velo islamico».

Da qui il giudizio di chi vi ha visto l’ipocrisia di una battaglia che si sta facendo sul corpo delle donne, ma che nasconde altri fini. O di chi, come parte del femminismo francese, l’ha definita una legge xenofoba e sessista. Non c’è dubbio che, dietro l’hijab – un velo che copre la testa, le spalle ma non il viso – si nascondono pericoli ben maggiori: la crescita del fondamentalismo tra migranti di seconda generazione, l’isolamento delle classi più povere nei ghetti delle periferie, la riproduzione di un comunitarismo chiuso nella difesa identitaria, gli episodi sempre più frequenti di violenza tra esponenti di diverse etnie e religioni.

Ma allora viene spontanea la domanda: perché dare tanta importanza al velo delle donne islamiche? Perché far scomparire vuoti, inceppi nati nel difficile processo di integrazione, dietro un indumento ritenuto simbolo di sottomissione femminile?

Una risposta si può già trovare nell’accostamento che Laurence Rossignol fa tra le donne che scelgono il velo e «i negri americani favorevoli allo schiavismo». Dal confronto, a prendere una rilevanza inaspettata, è la schiavitù volontaria o la mancata emancipazione femminile, considerata evidentemente come un fattore essenziale di civiltà o barbarie per i popoli di fede islamica, e di conseguenza per i paesi occidentali che li accolgono.

Si può essere d’accordo con Michela Fusaschi quando scrive – nel suo libro Quando il corpo è delle altre (Bollati Boringhieri 2011) – che la tutela delle «vittime» di culture arcaiche è stata spesso il pretesto per giustificare «missioni civilizzatrici» di governi europei, organismi internazionali e interventi legislativi riguardanti in realtà problemi di sicurezza interni: una «retorica della pietà» radicata nella storia di popoli che si sono considerati «superiori», legittimati per questo a sottomettere e colonizzarne altri.

Ma è altrettanto realistico pensare che, nel terremoto che sta attraversando i paesi arabi e nelle guerre «umanitarie» dell’Occidente, un peso di primo ordine, accanto agli interessi economici e politici, lo abbia il cambiamento del tradizionale rapporto tra i sessi. Considerate da sempre «risorse» – «naturali», si potrebbe dire, quanto il petrolio -, nel momento in cui le donne danno segno di non volere più essere un corpo a disposizione di altri, è un intero sistema di sopravvivenza che traballa, un ordine fatto di privilegi materiali e di valori legati al dominio millenario di un sesso solo.

A ciò bisogna aggiungere che il peso di una mutata coscienza femminile è tanto più grande in quanto va al di là delle «culture», dei confini nazionali, delle storie particolari di singoli popoli, siano essi tradizionali o industrialmente avanzati.

Il dominio maschile è il tratto distintivo più evidente e al medesimo tempo più invisibile della «famiglia umana». Non c’è progresso, modernità, che siano stati finora capaci di liberarsene.

«Ebbi allora la penosa occasione – scrive Fatema Mernissi nel suo libro L’Harem e l’Occidente (Giunti 2000) – di sperimentare come l’immagine di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna, e umiliarla tanto quanto il velo, imposto da una polizia statale in regimi estremisti quali l’Iran, l’Afganistan, o l’Arabia Saudita (…) Mi resi conto per la prima volta che la taglia 42 è forse una restrizione ancora più violenta del velo musulmano».

Il controllo sul corpo delle donne, da qualunque prospettiva lo si guardi – coperto per difenderlo da vogliosi sguardi maschili, circonciso o mutilato per preservarne la verginità e privarlo del piacere sessuale, oppure, al contrario, spinto a denudarsi come segno di liberazione dai repressivi divieti del passato-, è il denominatore comune di tutte le «culture» finora conosciute, il fondamento del patriarcato in tutte le sue molteplici manifestazioni.

Altrettanto universale è il «consenso» che le donne, costrette a far propria , per non dire «incorporare», la visione maschile del mondo, hanno dato e continuano a dare alla legge dell’uomo. La domanda, da qualunque sponda venga, è la stessa: «Perché le donne accettano?», aveva scritto Fatema Mernissi.

«Siamo davvero libere? – ha detto nella sua intervista Rossignol – Alcune di nascondere il corpo, le mani, il viso; altre di infliggersi operazioni di chirurgia estetica dolorose, di affamarsi per assomigliare a modelle da rivista che non esistono nella realtà. Il libero arbitrio degli individui in una società, un gruppo, una famiglia che produce codici, rappresentazioni e che in base al rispetto di questi codici esclude o accetta gli individui, è molto relativo».

Il problema, è chiaro allora, non è il velo delle donne islamiche – e non lo sono per certi aspetti neppure le «mutilazioni genitali», che le nuove generazioni di migranti associano giustamente alla chirurgia estetica genitale delle donne europee -, ma sono gli adattamenti, le resistenze, le appropriazioni che nel corso dei secoli hanno visto il dominato parlare la lingua del dominatore. Si può passare la vita «senza percepire altro che questo tessuto di immagini ricevute, stratificate e intrecciate a percezioni dirette ma oscure di sé» (Rossana Rossanda).

In Occidente oggi sono le donne stesse a calarsi nei panni che altri hanno cucito loro addosso, impugnando a proprio vantaggio le potenti attrattive – la seduzione e le doti materne – che l’uomo ha loro attribuito. La donna, il corpo, la sessualità si prendono la loro rivalsa sulla storia che li ha esclusi e cancellati, ma nel momento in cui compaiono nello spazio pubblico si fanno più evidenti i segni –i chador simbolici – che la storia vi ha messo sopra. Ci si rende conto che le identità, i ruoli, gli stereotipi della femminilità sono molto di più di un copione imposto.

«Per me – è la testimonianza di una giovane africana nel libro Il colore sulla pelle (a cura di Sonia Aimiuwu, L’Harmattan Italia 2002) a proposito della circoncisione- è normale, è la mia tradizione. È importante più che altro per proteggere la verginità della ragazza (…) mi ricordo che piangevo perché volevo farla, perché tutti i miei vicini di casa l’avevano fatta, perché si fa festa quando si fa, si avvisano tutti i vicini, arrivano tutti i bambini, si balla, si canta. È un momento in cui “sei regina” ed io ho pianto tanto».

Rivalsa, emancipazione perversa, si può considerare anche la ribellione che giovani donne africane fanno all’eurocentrismo culturale e a interventi legali che aggiungono violenze a violenze già subite, indossando gli abiti che le riportano dentro appartenenze, identità culturali, solo perché appaiono loro svilite, misconosciute.

Quali allora le vie d’uscita per una sottomissione che non viene solo da imposizioni e divieti esterni, che vive nelle istituzioni, nei saperi e linguaggi della vita pubblica, ma che ha radici ancora insondate nell’oscurità dei corpi? Di quanti svelamenti hanno ancora bisogno le donne di tutte le culture, perché si possa parlare di liberazione da tutte le «illibertà» sedimentate dentro di noi?

L’indicazione più saggia viene, non a caso, da quelle donne che con troppa facilità chiamiamo «vittime», privandole ancora una volta del loro essere persone, della loro voce, delle loro capacità di fare scelte.

«Crediamo che sia importante uscire dalle situazioni non per costrizione o autocostrizione, quanto piuttosto elaborando ferite e cicatrici per sviluppare nuove parti di una identità sempre in movimento e sviluppo».

(www.27esimaora.it , 30 aprile 2016)

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