4 Giugno 2013
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Occupy Gezi, testimonianza di una giovane italiana

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la testimonianza di Chiara Zani, 28 anni, pordenonese che vive e lavora a Istanbul da gennaio 2011.


Quarto giorno di scontri a Istanbul.

Ho deciso di condividere la mia esperienza degli eventi in qualità di Italiana, a Istanbul da due anni e mezzo. Sto partecipando a singhiozzo alle proteste, non dalla prima linea perché non posso sostenere il ricorso alla violenza neanche in risposta alla violenza, o forse non ne avrei il coraggio. Però credo nella circolazione dell’informazione, quindi ho trovato la mia forma di partecipazione “attiva” nella condivisione di ciò che leggo e che mi viene riportato da amici e conoscenti da sotto il gas e dietro le barricate.

Sono convinta che il mio punto di vista, che continua ad essere esterno nonostante non sia più certo l’ultima arrivata a Istanbul, possa essere una posizione privilegiata da cui osservare gli eventi recenti, e se possibile, esser d’aiuto per far capire che “aria” si respiri qui.

Che il verde di Piazza Taksim sia stato solo la scintilla iniziale degli scontri, è ormai noto a tutti. Allo stesso modo è ormai condivisa l’opinione, in Turchia come all’estero, che le proteste abbiano poi assunto ben altra forma e dimensione. Sono diventate il primo grande sollevamento popolare su scala nazionale contro il governo di Erdoğan, al potere da dieci anni con maggioranze plebiscitarie ma che negli ultimi anni si sta inesorabilmente allontanando dal suo popolo, attraverso una politica autoritaria, sempre più sprezzante del sostegno popolare.

Non mi addentrerò nelle ragioni politiche di questo crescente divario tra leader e popolo, perché c’è di certo chi lo sa fare meglio di me. Per quanto riguarda le proteste, il loro lato partecipativo, ho invece la mia esperienza personale da offrire come testimonianza.

Cresciuta in Italia, ho piena coscienza degli atteggiamenti disfattisti che da noi minano ogni forma di dissenso popolare, finendo per compromettere qualsivoglia manifestazioni di protesta nei confronti di chi ci governa: estremismi, strumentalizzazioni, pigrizia intellettuale, mancanza di interesse a proporre un modello alternativo.

Partendo da questi presupposti, ho subito potuto cogliere degli elementi di novità in queste proteste turche.

La prima novità è stata la mia reazione immediata e soggettiva alle proteste: lo stupore. Come se mi si stesse risvegliando la coscienza civile, anestetizzata per chissà quanto tempo dallo scetticismo e l’immobilità che si respirano nel Bel Paese. Cercherò di spiegare perché.

Due sono i fattori principali: in primis, la tipologia di gente che partecipa ai cortei. Niente black-blocs, niente tatuaggi a vista, ma tante maschere da imbianchino, striscioni e un mare di bandiere rosse che sventolano orgogliose.

La protesta di Gezi Park era nata come un’iniziativa a partecipazione limitata, come ce ne sono tante quasi ogni sabato lungo la vicina Via Istiklar, il viale pedonale del centro. Per il progetto di “trasformazione urbana” del parco, destinato ad esser demolito per – così si diceva – lasciar posto ad un centro commerciale, poche centinaia di persone avevano piantato picchetto da qualche giorno, in modo assolutamente pacifico. E’ bastato il commento tagliente di Erdoğan, che dichiara “Fate pure quello che volete, il progetto continuerà”, seguita dalla rimozione forzata e violenta di tende e persone da parte della polizia, con gas, ruspe e idranti, a scatenare l’indignazione prima, e la rabbia poi, dei cittadini di Istanbul. La famigerata goccia che fa traboccare il vaso.

Risultato: la gente si è riversata in strada. E non parlo di gruppi isolati di estremisti esaltati che inneggiano alla violenza e alla guerriglia urbana. Parlo di migliaia e migliaia di persone appartenenti a tutte le fasce d’età, di diverso colore politico, di diversa etnia (e questa è una particolarità dell’universo multietnico che noi chiamiamo “Turchia”), di diverso livello d’istruzione ed estrazione sociale.

In piazza, lungo le strade in direzione Taksim, sui battelli che attraversano il Bosforo verso la sponda europea, accanto ai militanti del movimento denominato “Occupy Gezi” si sono riuniti parlamentari e supporter dei partiti di opposizione, sindacati, attivisti di vari gruppi, ma soprattutto la gente comune: giovani e anziani, donne alla loro prima discesa in piazza, ragazze vestite alla moda e studenti di sinistra, manager, imprenditori, operai, pensionati.

Al grido di “Erdoğan, dimettiti” non si fanno intimorire facilmente dai poliziotti in divisa antisommossa e urlano la loro opposizione all’ennesimo pugno di ferro del governo, ad una leadership sempre più aggressiva, alle sue derive di tendenza islamista, alle restrizioni alle libertà personali degli ultimi tempi, alla dura repressione di ogni forma di dissenso (le immagini delle violenze della polizia durante i cortei del 1 Maggio sono ancora ben vivide).

La Turchia è giovane nello spirito, basta un colpo d’occhio per accorgersene. Soprattutto per un Italiano che a certe forme di mobilitazione dal basso, almeno negli ultimi trent’anni, non ha mai assistito, e non perché manchino motivazioni valide. Le proteste qui a Istanbul, o ad Ankara, Izmir, Eskisehir, hanno un volto talmente eterogeneo da ricordare, anche a chi ne ha solo sentito parlare, quale possa essere la voce di un popolo che esprime con forza la propria opinione. Uno spiazzante messaggio di unità, di solidarietà e, azzarderei, di speranza nella Democrazia con la D maiuscola.

Lungi da me ripiegare su facili moralismi o slogan di bassa lega. E’ chiaro che iniziative del genere devono poi trovare una loro traduzione in atti concreti e proposte di cambiamento realizzabili per non esaurire la loro carica propulsiva. Né bisogna confondere i recenti eventi turchi con le “Primavere” che hanno infuocato negli ultimi anni il Medio Oriente: qui il sistema democratico non vuole essere rovesciato, ma si tenta di far pressioni per modificarlo dall’interno, impiegando i suoi meccanismi propri per ottenere una leadership che dia ascolto alle esigenze reali dei cittadini.

Ad ogni modo, a dimostrare che le proteste non sono solo appannaggio di gruppi marginali ma vere e proprie marce popolari a cui partecipano tutti, ci sono le iniziative di quartiere. Si collocano a lato e a supporto delle grandi imprese sulla strada, guadagnano forse una foto e un commento sporadico, ma hanno un valore enorme perché includono nella protesta momenti di vita reale della gente, che mai prima d’ora aveva partecipato ad una manifestazione.

Porto un’esperienza diretta: le strade attorno casa mia, a circa 15 minuti a piedi da Piazza Taksim, si animano ogni sera di donne e bambini che dalla finestra di casa iniziano a sbattere cucchiai su padelle e pentolini, creando un clamore non indifferente. Allo stesso momento richiamano automobili che fanno carosello per i sensi unici del quartiere suonando il clacson all’impazzata, a cui rispondono i passanti che applaudono, le luci di terrazzi e stanze si accendono e si spengono, in un dialogo circolare che sia autoalimenta anche per ore e ore.

Venerdì sera hanno proseguito ininterrotti dalla sera fino alle 4 di notte, sabato pure. Un’esperienza totalmente coinvolgente per me, perché basilare, genuina, semplicemente condivisibile. Mi sono ritrovata più volte ad andare alla finestra e applaudire, senza volere, con il sorriso sulle labbra. Anche se mi svegliano di soprassalto alle 4 di notte.

La solidarietà di base tra la gente, attivamente coinvolta o solo sostenitrice, si è poi dimostrata in mille e un modo nei giorni della protesta: dagli istituti pubblici e privati delle zone in rivolta, tra cui consolati, università, hotel, che aprono le loro porte a qualsiasi ora a chi cerca rifugio dal gas, ai dottori volontari che forniscono prima assistenza nelle moschee, trasformate in luoghi di soccorso, alle famiglie che aprono le loro case a chi avesse bisogno di riparo nelle zone più turbolente della città e rinfrancano corpo e spirito dei manifestanti offrendo tè e limone contro gli effetti del gas al peperoncino, fino agli avvocati che si mettono a disposizione per assistere chi è stato arrestato e non ha mezzi, o conoscenze, per difendersi, e infine, ai manifestanti che si riuniscono dopo gli scontri a ripulire le piazze e le strade.

E sopra a tutto questo, la grande macchina che unisce gli sforzi della gente: la Rete. E’ questo il mio secondo motivo di stupore in questi giorni di protesta.

Nei primi giorni uno spazio, pur marginale, era pur dedicato dai giornali ai sit-in a Gezi Park, mentre i sostenitori dell’iniziativa cercavano dalla radio di richiamare attivisti e simpatizzanti – i risultati sono stati modesti, come s’è visto.

La vera e propria mobilitazione è stata registrata solo dopo la prima reazione di forza della polizia e i primi feriti. Senza alcun annuncio ufficiale, mentre mancava persino un sito internet dei militanti che potesse coordinare le proteste (“Occupy Gezi” sarebbe stato creato solo nel pomeriggio di venerdì, dopo ore di scontri), la chiamata alla protesta e’ stata diffusa soltanto attraverso i social network: Twitter, Facebook, Tumblr. Io stessa ne sono venuta a conoscenza venerdì tramite amici che pubblicavano foto su Facebook e ci comunicavano il cambio di prospettiva delle proteste.

Nei giorni successivi, solo attraverso questi canali è stato possibile capire cosa stesse succedendo nelle zone calde della città, di fronte al totale silenzio dei maggiori canali di informazione giornalistica.
Mentre la piazza si infiammava e esplodeva la violenza, i principali canali televisivi trasmettevano servizi riempitivi su divieti di fumo in Russia o documentari sui pinguini. Venerdì soltanto due canali trasmettevano online la situazione in tempo reale su Internet attraverso telecamere fisse in Piazza Taksim, a cui poi si sono aggiunte quelle in zona Besiktas, dove gli scontri maggiori hanno avuto luogo negli ultimi due giorni.

Con la loro diffusione orizzontale, i social network hanno svolto un ruolo imprescindibile nel connettere fra loro i diversi gruppi di partecipanti e coordinare le loro azioni. Soltanto grazie al tam tam su Facebook, ad esempio, 40.000 persone si sono riuscite a incontrare sabato alle 5 di mattina sul lato asiatico di Istanbul per attraversare l’iconico Ponte sul Bosforo e raggiungere a piedi Piazza Taksim, mentre i tutti collegamenti diretti alle zone della protesta erano stati sospesi.

Tuttora, Twitter è il canale privilegiato per rapidi aggiornamenti tra manifestanti sullo stato degli scontri, permette di andare in soccorso di chi è in difficoltà, o a chi non è in strada di ottenere informazioni reali, per quanto volatili come può essere una opinione personale, sulla realtà di ciò che sta accadendo.

I social network hanno poi assicurato una dimensione più ampia alle proteste, scoppiate a catena in diverse città del Paese prima, e poi sostenute a distanza da manifestazioni in numerose città europee e al di là dell’oceano. Molti amici dall’Italia o da altre città turche me lo stanno confermando in questi giorni: anche ora che i media turchi hanno iniziato a interessarsi alla vicenda, Twitter e Facebook rimangono il metodo principale per avere un collegamento alla base e aggirare la distorsione delle informazioni ufficiali.

La copertura internet nelle zone della protesta da venerdì è comunque presente solo a macchia di leopardo nelle zone degli scontri, totalmente assente attorno a Gezi Park. Punti wi-fi e password d’accesso sono stati messi a disposizione da bar e locali della zona per permettere ai manifestanti di continuare la loro opera di condivisione. Ancora una volta, indirizzi e codici sono stati diffusi via Facebook e Twitter.

E noi, nel piccolo del nostro gruppo su Facebook, portiamo avanti un’attiva condivisione di informazioni e aggiornamenti, sia per gli italiani in protesta qui che per gli italiani che seguono dall’estero, o hanno familiari in Turchia. Tentiamo poi di controllare la veridicità delle notizie che ci arrivano e pubblicare solo quelle confermate da testimoni oculari. Una piccola lezione di etica giornalistica per i non addetti ai lavori, possiamo dire.

Il rischio di strumentalizzazioni è infatti ora tanto elevato quanto è elevata la capillarità di questi canali di condivisione, aperti a ogni voce e a ogni opinione.

In risposta ai numerosi fotomontaggi e video fasulli condivisi dai militanti degli scontri sono comparsi in questi giorni fotografie e video elaborati con Photoshop che tentano di screditare i manifestanti di Gezi Park, mostrandoli come estremisti sbandati e violenti. La dialettica tra i due lati della protesta ha ormai invaso pure questi spazi, ratificandone cosi’ una volta per tutte il ruolo attivo nelle proteste.

Lo stesso Erdoğan, nelle sue prime dichiarazioni sulle proteste domenica, ha definito Twitter “il principale male del mondo”. Queste parole, talmente incaute e provocatrici da forse sottendere una precisa strategia, sono state seguite dall’inevitabile rinfocolare degli scontri e delle repressioni della polizia, sempre più violente. E’ di ieri notte, lunedì, la conferma del primo morto, ucciso da un proiettile sparato da un poliziotto.

In un’immagine: il popolo turco è in marcia, in modo spontaneo ma organizzato. Rifiuta chiare affiliazioni politiche e si pone come un movimento del popolo, halk, nato genuinamente dalla frustrazione per le politiche recenti del governo e la retorica unilaterale del premier. Addirittura la proposta circolata su Facebook ieri di cantare la Marcia di Atatürk, l’inno nazionale di indipendenza, alle 9 di sera in tutto il Paese non ha avuto luogo, a dimostrazione della volontà di inviare un messaggio ben preciso.

Rimane solo da augurare un proseguimento concreto a questa marcia della Gente. Ma anche solo cosi, ora come ora, io ho trovato molti motivi per ammirarlo, questo Popolo Turco.

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