di Lea Melandri
Nessuno sembra essersi accorto che se c’è uno stereotipo duraturo è proprio il femminismo, la rivoluzione delle coscienze che ha messo a tema il rapporto di potere tra i sessi e la cultura che lo ha trasmesso lungo una storia millenaria.
Effetto dell’ignoranza o di una volontaria messa sotto silenzio, la banalizzazione e gli storpiamenti che hanno subito le teorie e le pratiche del movimento delle donne, da cinquant’anni a questa parte, appaiono incomprensibili se messi a confronto con il profluvio di parole come gender, transgender, queer, lgbtq, che oggi occupano il dibattito pubblico e di cui sembra essersi persa l’origine.
Ho pensato perciò che non fosse inutile richiamare alcuni dei passaggi che hanno fatto della cultura femminista la critica più radicale alla politica tradizionalmente intesa, alla divisione sessuale del lavoro e a un modello di civiltà distruttivo nei suoi fondamenti, oggi più visibili che in passato.
Alla domanda «perché ha ancora senso dirsi femministe», risponderei così:
– Perché il salto della coscienza storica prodotto dal femminismo non si esaurisce con una generazione. Tutti sappiamo cosa vuol dire essere maschi o femmine, ma è come se ognuno/a singolarmente dovesse scoprirlo, partendo da una domanda che nasce dentro di sé, per rendersi conto che i ruoli e le identità di genere, il rapporto di potere tra i sessi, non appartengono alle leggi immutabili della natura, ma alla storia, alla cultura, alla politica, e come tali possono essere modificate.
– Perché il femminismo non è un’ideologia, legata a una fase storica particolare, ma un cambiamento nella consapevolezza che si ha di sé e del mondo, un modo diverso di pensare e agire nella vita privata e pubblica, un processo di liberazione da pregiudizi, schemi mentali, costruzioni immaginarie che abbiamo inconsapevolmente ereditato dalla cultura dominante.
– Perché è stato il primo e finora l’unico movimento di donne che ha mostrato l’inganno del dilemma, proprio dell’emancipazionismo, «uguaglianza/differenza»: omologazione al maschile o tutela/valorizzazione della differenza femminile, un dualismo conseguente alla divisione sessuale del lavoro, all’identificazione della donna con la madre e con gli interessi della famiglia. Da qui viene l’attualità del femminismo in quanto interprete dei cambiamenti a cui stiamo assistendo: presenza sempre più incisiva e critica delle donne nella sfera pubblica; la cura vista come responsabilità collettiva di donne e uomini; riscoperta del tempo di vita come valore rispetto alle logiche produttive e di mercato.
– Perché ha portato la riflessione e la presa di coscienza sul corpo, sulla sessualità, sulla violenza che si annida nei rapporti più intimi, sulla maternità, cioè sulle esperienze che, lasciate per secoli fuori dalla storia, conservano più a lungo l’eredità del passato.
– Perché ha legittimato le donne a «vivere per sé», a riconoscersi come persone, individui e non solo ruoli funzionali al benessere di altri.
– Perché ha fatto scoprire che era possibile una socialità tra donne non segnata dallo sguardo maschile che le ha tenute per secoli divise –madri di, mogli di, figlie di-, un’amicizia produttrice di intelligenza e creatività individuale e collettiva.
– Perché nonostante sia stato osteggiato, messo sotto silenzio, temuto e fatto oggetto di scherno, ha mantenuto la sua forza, la capacità di produrre pensiero, iniziativa, conflitti, di alimentare passioni durature, che ricompaiono di generazione in generazione.
– Perché dopo mezzo secolo, la generazione che vi ha dato avvio negli anni ’70 si è sentita dire al convegno di Paestum (ottobre 2012) dalle donne venute dopo, alcune delle quali molto più giovani: «siamo coetanee», «se siamo qui con voi è perché ci avete trasmesso molto».
(Corriere della Sera, 1 marzo 2017)