20 Febbraio 2015

Palchi e impalcature

di Laura Colombo

Qual è l’impalcatura che, oggi, sorregge simbolicamente gli uomini? Se guardiamo appena un po’ indietro, possiamo ancora scorgere il patriarcato, ovvero il dominio maschile sul corpo femminile e la sottomissione delle donne, definite e giudicate dallo sguardo di lui. La rimozione della sfera del corpo-materia che ha garantito all’uomo la liberazione dall’oscuro del corpo della madre e l’appropriazione della sua potenza, si è tradotta in potere, primato, prestigio, soldi e, via via, tutti gli orpelli e i riconoscimenti sociali (fino alla violenza, atroce privilegio). Oggi questa impalcatura è crollata.

La millenaria continuità patriarcale è stata spezzata dal quel movimento che ha fatto della relazione tra donne un fatto politico, mettendo al mondo soggettività e libertà femminile. Non senza conseguenze. Ci sono libri che riflettono sulle macerie prodotte dal patriarcato cercando di cogliere parole femminili illuminanti. Uno di questi è il recente Senza madre di Stefania Tarantino (La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2014), che indaga sull’origine della violenza europea (di marca maschile, dico io esplicitamente) a partire dalle riflessioni di Maria Zambrano e Simone Weil. L’autrice identifica il principio della violenza nella “posizione privilegiata di una soggettività che ha disprezzato il dato materiale e che ha cercato sempre ossessivamente di affrancarsi dalla contingenza umana”.

Questa posizione è difficile da scalzare e il privilegio è così potente che, annaspando per arginare la frana, tra gli uomini c’è chi invoca il ritorno alla Legge del padre (pur sempre un principio di ordine simbolico) e chi invece critica questa posizione affermando che “La fonte della sofferenza contemporanea sta soprattutto nel venire meno della madre” (Franco Berardi Bifo, www.commonware.org/index.php/neetwork/511-senza-madri, in un commento al volume citato). Lui qui coglie un punto importante, ma la speranza che si tratti di una vera apertura verso un differente ordine simbolico svanisce in poche righe: le donne sono viste solo come emancipate (sventurati i figli e le figlie lasciate agli asili o ad altre donne, costrette a loro volta ad abbandonare i propri) e funzionali all’economia neoliberista (la messa al lavoro dell’affettività femminile quali ripercussioni ha sui poveri maschi?).

Ma le donne possono stare tranquille (dico io sardonicamente), Bifo non le sta richiamando “a fare il loro lavoro di mamme”. Ancora una volta, pur nel disordine, si ripropone la scissione tra corpo e mente, tra riproduzione e produzione: ma ancora non avete capito che la maternità vogliamo (e possiamo) viverla liberamente? Che la riproduzione potrebbe diventare, per tutti, il paradigma di quelle “attività che mettono e rimettono al mondo, e sul mercato, l’umano”? (Anna Simone e Federica Giardini, La riproduzione come paradigma. Elementi per una economia politica femminista).

Bifo non sa che c’è una via femminista alla soggettivazione che passa per la libertà ed è critica verso l’emancipazione. La libertà femminile nasce dalla scoperta (fatta a partire dall’esperienza condivisa e messa in parola) che l’eccedenza delle donne rispetto alla legge simbolica paterna è ricchezza e forza, non disvalore. Il punto è cosa farne di questo eccesso perché donne e uomini possano misurarsi con il presente, come far sì che la capacità femminile di invenzione singolare e contingente sia ricchezza per tutti e lievito per una politica rinnovata. È un punto che mi riguarda e riguarda più in generale le femministe che stentano a riconoscere il valore politico di questa sproporzione o non sanno che farsene, disorientandosi e autolimitandosi nel panorama neoliberale del mondo attuale (vedi Femminismo e neoliberalismo, curato da Tristana Dini e Stefania Tarantino, Natan Edizioni, Benevento 2014).

Torno agli uomini riprendendo Bifo, che identifica il punto cruciale nella mancanza del corpo materno che avvia amorevolmente alla parola. A mio parere la mancanza che lui percepisce è una rimozione, che ha radici sia nell’impossibilità di vedere sé e restare in contatto col proprio corpo, sia nella negazione della realtà. Se lui ha avuto accesso alla parola è per opera di sua madre. È importante riconoscerlo, altrimenti si rischia di cadere nella rappresentazione rivisitata della miseria femminile, questa volta post-patriarcale.

Bifo, e tutti quegli uomini che come lui vorrebbero voltare pagina, faticano lasciar andare le macerie del disordine patriarcale e si aggrappano a un’impalcatura sgangherata che si basa, ancora una volta, sulla cancellazione di lei. Ora come allora? Non possiamo dirlo, lei oggi ha guadagnato indipendenza simbolica, esiste per sé, è consapevole. E rischia: sceglie, parla, decide, ama, vive. Rischia anche di essere fatta fuori per mano di lui, letteralmente e, molto più spesso, metaforicamente. È questo che lo sorregge, mi pare di capire: lui non c’è, si arrabatta tra nostalgia del padre e ostinata sottrazione alla relazione restando attaccato a un potere sregolato e violento e preda di un desiderio ormai trasformato in panico.


(www.libreriadelledonne.it, 20/2/2015)

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