17 Marzo 2017
27esimaora.corriere.it

Pensare per scene, la genialità di Virginia Woolf

di Liliana Rampello

Esplorare il «tempo dissestato» è l’obiettvo di Animatine, luogo, spazio, serie di appuntamenti alla Galleria di Arte Moderna e contemporanea di Roma in cui i protagonisti della cultura contemporanea indagano le arti come lettura del contemporaneo. Tra filosofia e stili di vita. Il terzo appuntamento, venerdì 24 marzo, con il titolo
«Il tempo dell’immagine verbale. Virginia Woolf» è una lezione magistrale di Liliana Rampello di cui anticipiamo qui alcuni stralci (oltre a una chiacchierata su Radio27)


Virginia Woolf ha attraversato un intero secolo senza perdere il suo smalto, ha interpretato il suo tempo, lo spirito del suo tempo con una originalità che va oltre la sua arte e interpella, come sempre la vera arte, la riflessione critica e filosofica di quell’epoca e della nostra.

Se pensiamo all’inizio del Novecento, nel campo della letteratura la questione del tempo si è posta in modo inevitabile per via di un rivolgimento radicale della sua percezione (e di quella dello spazio), conseguenza diretta di molte scoperte scientifiche che modificarono la vita quotidiana (qualche esempio disordinato: luce elettrica, telefono, fotografia, cinema, automobile, ferrovie, aerei, radiotelegrafia, raggi X ecc. ecc.). Freud scopre l’inconscio, Einstein la relatività, l’arte si fa avanguardia, e poi Cézanne, Picasso, tutto precipita verso mutamenti radicali. È evidente che anche la costruzione classica della narrazione ottocentesca non ha più scampo, incrinata già da Flaubert, è definitivamente scossa da Proust, Kafka, Musil, Joyce, Conrad, Hemingway, Gertrude Stein e Virginia Woolf. Ognuno di questi autori ingaggia e risolve a modo suo (tra affinità e differenze) proprio questa questione, ovvero come si porta a rappresentazione, attraverso il linguaggio, con le sole parole, quanto sta capitando nella vita di tutti: se cambia la percezione della realtà come possono non cambiare le nostre emozioni?

(È quanto sta capitando anche adesso, a noi, per via della nuova rivoluzione tecnologica…)

 

Intanto non dobbiamo immaginare che si sia messa a “pensare” il tempo, non è certo questa la via che la porta alle sue scoperte, direi che il suo pensare è se mai un concepire: accogliere l’esperienza sul piano istintivo, intuitivo, ideare, immaginare, e stare a questa esperienza quasi alla lettera, per come lei stessa la formula in modo esplicito, quasi sempre nelle sue meravigliose lettere (3.800) o nei suoi diari (6 volumi).

La consapevolezza di Virginia Woolf, di come e quanto sia cambiato l’intero panorama espressivo della sua epoca, è rintracciabile con particolare chiarezza nella Lettera a un giovane poeta, del 1932, una lettera indirizzata a un poeta e amico, John Lehmann, al centro della quale sta la chiave musicale stessa di questa somma arte del linguaggio, ovvero il ritmo, ma dalla quale ora rilevo una sola citazione, in linea con quanto sto dicendo:

 

«Tutto è tumultuoso e transitorio… Ciò che bisogna fare oggi è affacciarsi alla finestra e lasciare che il senso ritmico (l’istinto del ritmo è il più intimo e primitivo degli istinti per lei… fino ad Anon) si apra e si chiuda, si apra e si chiuda, coraggiosamente e liberamente, finché una cosa si confonda con l’altra, finché i tassi comincino a ballare con i narcisi, finché si possa fare un tutto con questi frammenti separati».

La rottura, lo shock…

Virginia Woolf “pensa per scene”, lo ripete spesso, ovvero pensa uno spazio, vede qualcosa situato nello spazio (forse «ogni nostra prima impressione della poesia è visiva», annota) e deve tradurre la visione in espressione, deve portarla ad espressione, tenendo insieme il contenuto della visione e la sua forma. La scrittura è un teatro (mai dimenticare che Virginia Woolf è inglese, e che la sua lingua è impastata fin nelle più intime fibre di Shakespeare), un teatro che ha bisogno di un tempo che dia profondità alla scena, le parole allineate in una frase e le frasi che si rincorrono una dietro l’altra hanno bisogno di una messa in prospettiva, e la prospettiva della scena della scrittura non può essere che il tempo. Di questo aveva bisogno Virginia Woolf all’inizio del ’900, di un indice della temporalità nuovo, per scrivere della realtà cambiata, lo ha trovato e, da “vero genio dell’essenziale”, lo ha modulato in molte forme diverse in tutte le sue scritture. È la concezione del tempo che cambia il racconto stesso. Addirittura in ognuno dei suoi romanzi. A partire dalla Camera di Jacob, e poi con Mrs Dalloway e Al faro, Le onde, Gli anni, fino all’ultimo, Tra un atto e l’altro, sempre la sua immaginazione reinventa questa stessa temporalità che, incidendo la nuova forma, asseconda una ricerca che non si acquieta mai. La prospettiva temporale è il suo taglio, è la risposta originale e smagliante che dà a una ricerca comune del suo tempo.

La sua scoperta è il senso presente della vita che le sue protagoniste (La signora Dalloway e la signora Ramsay) incarnano. Per Virginia il “tempo presente” significa che ciò che accade accade sempre prima dell’esperienza di senso che noi possiamo farne e, quindi, l’emozione, questo denso rapporto fra corpo e mente, non si compie, non si esaurisce, nell’attimo dell’accadere, ma nel qui e ora dell’esperienza presente.

Noi sentiamo al presente il nuovo farsi di quell’emozione passata, che ora si compie in un presente che era (per il passato) un tempo futuro. I tre tempi che conosciamo, passato, presente, futuro, non si svolgono più secondo l’asse agostiniano che svuotava il presente, rendendolo un semplice ponte trasparente del momento che non è più o non è ancora, ma si intrecciano in solo punto, o punctum, per dirla con il Roland Barthes della Camera chiara, quel punctum che, nella fotografia, colpisce irrazionalmente, con un semplice dettaglio, l’emozione dello spettatore… Si tratta dell’attimo, che brilla assoluto ma non intemporale: incassato nel qui e ora fa la spola fra senso del passato e senso di un presente che assorbe il futuro raggomitolato in quel passato incompiuto, mai definitivamente compiuto.

Torniamo ora all’inizio, a quella scrittrice che si sapeva un’outsider e che ha fatto di questa sua posizione dissestata nel mondo la leva formidabile per l’invenzione di un tempo proprio della donna che lei era, lo ha rappresentato nell’immagine verbale, lo ha donato alle sue protagoniste e alle sue lettrici. Lei, la scrittrice, ha attraversato, oltrepassato, raffigurato una realtà che non è possibile circoscrivere alla sua descrizione, che sfugge alla presa, ha reso definitivo tutto quanto “rimane una volta gettata al di là della siepe la buccia vuota del giorno”. Lei, che sapeva che il tempo è intrattabile, che la vera “realtà estrema” è la vita, con l’intuizione del tempo presente ha messo tutto il mondo in una sola immagine, l’universale nel particolare, Dio nel dettaglio.

L’appuntamento

Il tempo nell’immagine verbale. Virginia Woolf
venerdì 24 marzo, ore 18 – 19.30
Sala delle Colonne, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma
viale delle Belle Arti, 131

(27esimaora.corriere.it,17marzo 2017)

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