10 Luglio 2013

Procedibilità d’ufficio: libere di non scegliere

di Silvia Baratella

Da un trafiletto sul Corriere della Sera del 25 giugno 2013 apprendiamo che la ministra Cancellieri avrebbe intenzione di proporre al Consiglio dei ministri la procedibilità d’ufficio nei casi di violenza contro le donne perché questa, ha dichiarato durante un convegno sulla violenza “di genere” al Policlinico Umberto I di Roma, «libererà le donne da una preoccupazione grave e affannosa, quella di dover fare querela.» Come dire: “libererà le donne dalla scelta”. Infatti “procedibilità d’ufficio” significa che, una volta venuta a conoscenza del reato anche su segnalazione di terzi, l’autorità ne persegue automaticamente gli autori, indipendentemente dalla volontà della parte lesa. Ovvero, «processo sempre, anche se la vittima non vuole»*.

In questo modo la ministra dimostra scarsa stima per le donne e scarso rispetto per la loro autonomia. Infatti le scavalca, delegando ad altri (o ad altre, ma non cambia) il compito di stabilire qual è il loro bene e di agire in loro nome. Così non rende la vita più facile a nessuna, in compenso cancella simbolicamente il valore e la forza di ciascuna. Non è di questo che abbiamo bisogno.

Si può obiettare che, nonostante le intenzioni “maternaliste”, gli interventi d’autorità potrebbero avere effetti pratici positivi, magari salvare delle vite. Ma per i reati di lesioni gravi e di sequestro di persona la procedibilità d’ufficio c’è già, e trova applicazione anche in casi di violenza maschile contro le donne. Non occorre introdurla specificamente, ma preparare gli operatori e le operatrici dei servizi a farne uso quando serve.

E non si può fare a meno di ricordare che molte donne sono state uccise dopo lunghi crescendo di abusi, violenze, minacce e persecuzioni, inutilmente costellati di provvedimenti restrittivi da parte dei tribunali contro i persecutori. La legge degli uomini non sembra avere strumenti efficaci per fermare un assassino finché non ha già ucciso, né con né senza procedibilità d’ufficio.

 

Del resto non è la prima volta che se ne parla. Quando nel 1979 Mld, Udi e altri gruppi di donne presentarono la loro proposta di legge di iniziativa popolare sulla violenza sessuale, vi inserirono anche la procedibilità d’ufficio. Molte obiettarono che la scelta doveva spettare sempre e comunque all’interessata, che non poteva essere obbligata a sopportare l’ulteriore violenza agita nel dibattimento. Sempre nel 1979, infatti, il documentario Processo per stupro, diretto da Loredana Rotondo per la Rai e girato al Tribunale di Latina, aveva mostrato a tutto il paese quanto potesse essere duro il processo per la parte lesa. Quando la proposta arrivò in parlamento, poi, questo optò per la querela di parte ritirabile.

 

Sono passati trentaquattro anni. Molte cose sono cambiate da allora, e molte altre no. Innanzitutto, è cambiato il fuoco del dibattito, che allora era centrato essenzialmente sui casi di stupro, mentre oggi l’attenzione si è spostata su violenza domestica e stalking. È cambiato il rapporto della società con la violenza maschile contro le donne; oggi fa scandalo che ci sia, allora faceva scandalo che le femministe ne parlassero. È cambiato l’atteggiamento delle forze dell’ordine. Allora, chi denunciava una violenza subita veniva perlopiù invitata a non procedere. Oggi, in polizia si insegna a riconoscere le violenze contro le donne e a cercare di intervenire. Sono cambiate le donne. Allora, cominciavano appena a nominare i loro desideri e a prendere parola pubblica contro la violenza maschile. Oggi, hanno messo in piedi una rete di Case di accoglienza e di centri antiviolenza. Le giovani, poi, sono molto più determinate nei loro progetti di vita, anche se spesso combinano sicurezza di sé con grandi fragilità. Verrebbe da dire che non sono cambiati gli uomini, visto che ogni giorno violentano e che ammazzano le loro compagne. Eppure, se oggi è più chiaro che la violenza contro le donne è un problema degli uomini, mentre trentaquattro fa era considerata una voce della “questione femminile”, lo si deve anche alla presa di parola di alcuni uomini, che hanno fatto un percorso inimmaginabile nel 1979.

 

Cosa può fare allora, trentaquattro anni dopo, la ministra della Giustizia? Se vuole solo “liberare” le altre donne dalla preoccupazione di scegliere, è meglio se non ne fa niente, grazie.

Se invece volesse, come la invitiamo a fare, cercare di contrastare la violenza maschile e la cultura di cui si nutre, può fare due cose: la prima è riconoscere la forza e i desideri che donne hanno già messo in campo, e chiedere ai suoi colleghi di governo di sostenere anche economicamente le case delle donne e i centri antiviolenza. La seconda, e proprio nel suo ambito di competenza, è far risarcire le vittime della violenza maschile. In sede penale i giudici perlopiù non impongono ai colpevoli alcun risarcimento, benché abbiano la potestà per farlo (vd. l’articolo di Antonio Bevere su Il manifesto, 20/6/2013: http://www.libreriadelledonne.it/testimone-e-risarcita-per-un-giusto-processo-proviamoci-anche-con-i-soldi/). La ministra della Giustizia è la figura più indicata per impartire un orientamento in questo senso ai tribunali italiani. E chissà che toccati nel portafoglio gli uomini non tengano un po’ più a freno la loro tracotanza?

(*) Non credere di avere dei diritti, Libreria delle donne di Milano, 1987, Rosenberg & Sellier

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