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26 Maggio 2013

Procreazione e filiazione

di Luciana Piddiu

“Occorrerà del coraggio per fare ciò che sono in procinto di fare: dire ed espormi all’enorme sorpresa che proverò di fronte alla povertà della cosa detta.”
(Clarice Lispector)

C’è una questione su cui da tempo vado interrogandomi: la separazione tra concepimento e genitorialità e le possibili conseguenze sulle vite dei bambini che vengono messi al mondo con queste moderne tecniche di fecondazione.

Per evitare fraintendimenti o malintesi, premetto che non ho alcun dubbio che  singoli/e o coppie omoparentali o etero, affette da sterilità, possano essere ottimi genitori in grado di crescere con cura e amore le loro creature.

Non è questo il punto.

Mi inquieta che – per voler sembrare emancipati e al passo coi tempi – si semplifichi e si banalizzi una questione che rimane complessa.  E non ci sarà legge al mondo, quand’anche fosse approvata all’unanimità e a furor di popolo, che possa nascondere o stemperare questa complessità.

Mi chiedo infatti che conseguenze potrà avere – a lungo termine – l’intermediazione del denaro con le relative pratiche di tariffazione in quella sfera cruciale dell’esperienza umana che è la generazione, legata intimamente alla sessualità e quantomeno al contatto, se non alla relazione, fra esseri di genere differente.

Dare la vita non è un privilegio, come sembra far intendere la rockstar Nannini in una intervista rilasciata a Vanity Fair, è solo una possibilità che può essere o no iscritta nei nostri corpi e che sarebbe auspicabile non vivere come obbligo sociale.

Il desiderio legittimo di essere genitori è stato, attraverso successivi slittamenti linguistici, trasformato in bisogno e da lì in diritto. Senza tenere in alcun conto che il desiderio di essere genitore è del tutto indipendente – per tutti – dalla possibilità biologica di riprodursi e senza considerare che l’assolutizzazione del desiderio ci ha reso ciechi e senza misura.

Dal desiderio totalizzante si è arrivati così al diritto, rivendicato dallo Stato, di avere (e sottolineo avere) un bambino con la conseguente riduzione  del bambino a  bene di cui ci si possa appropriare.

E’ evidente che tale diritto non esiste mentre esistono da parte degli adulti doveri verso i bambini tutti.

Possiamo davvero essere certi che la negoziazione prima e l’acquisto poi – non la donazione, come ipocritamente si dice – di tutto ciò che occorre per produrre ‘il bambino’ sarà ininfluente per i soggetti coinvolti?  (passando sotto silenzio l’enorme giro di affari che si cela dietro le banche del seme e la locazione degli uteri di donne ridotte a puri contenitori).

I nati attraverso queste tecniche avranno diritto di accedere, se lo vogliono, all’identità dei loro genitori biologici?

La loro propria esistenza, resa possibile dalla differenza sessuale, e la loro identità anagrafica sarà iscritta nel loro stato civile o negata in nome dell’esigenza di non discriminare le coppie omoparentali rispetto alle altre ?

Se è ormai assodato che la filiazione è soprattutto simbolica e passa dunque dalle parole e dalla testimonianza, non è quantomeno azzardato supporre che non farà problema il non sapere da dove si viene, il non potersi collocare in una storia genealogica ?

Non penso davvero che sia di conforto per affrontare la vita scoprire che si è venuti alla luce grazie a un atto di compravendita.

Perché condanniamo senza appello l’acquisto di bambini e ci sembra invece lecita l’intermediazione del denaro e la mercificazione delle persone nel campo riproduttivo in cui ovociti, sperma e uteri sono trattati alla stregua di ‘capitali’ da cui trarre profitto?

A dispetto dell’ affermazione che i figli hanno solo bisogno di essere amati  e sono di chi li educa e li cresce e non di chi li fa, a me pare che  si celi in queste pratiche il ‘desiderio’ assoluto di trasmettere almeno in parte il proprio corredo biologico a bambini che saranno sicuramente beneamati e felici ma che non potranno non essere turbati dal sapere un giorno che qualcuno, inseguendo il proprio desiderio, ha deciso per loro di privarli di una mamma o di un babbo o comunque di cancellare la persona che li ha accolti e nutriti nei nove mesi di gestazione.

Non sarà uno zaino troppo pesante da portare in una società dalle appartenenze sempre più fluide e fragili, in un universo sempre più freddo? Davvero non è più essenziale alla condizione umana sapere da dove si viene per poter scegliere dove andare?

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