28 Gennaio 2015
Libération

Quando i nostri figli uccidono i nostri padri

di Julie Pagis

16/17 gennaio 2015

 

http://www.liberation.fr/chroniques/2015/01/16/quand-nos-enfants-tuent-nos-peres_1182251

 

 

Dal 7 gennaio, mass-media, politici e intellettuali mediatici ci intimano di “essere Charlie” e di aderire all’«unità nazionale», stigmatizzando così tutti quelli che non lo fanno. Ma saremmo «tutti Zemmour*» o «tutti Minute**» se fossero stati questi ultimi a essere presi a bersaglio? Questa domanda – che non è retorica né una provocazione – permette di distinguere due significati dietro al «Je suis Charlie»: da una parte la rivendicazione di un’inalienabile libertà di stampa, dall’altra l’immedesimazione con i giornalisti assassinati per ciò che rappresentavano. Ora, l’ingiunzione di “essere Charlie” sui media, in politica, a scuola o in famiglia, non scindendo i due livelli, impediscono ogni sana polemica (di quelle per cui andavano pazzi i disegnatori di Charlie) e generano dei disagi di cui le scienze sociali possono cominciare a studiare alcune conseguenze.

 

Charlie Hebdo, attraverso le sue figure storiche in gran parte assassinate il 7 gennaio, incarnava un’intera generazione, impegnata negli anni ’60 e ’70 a contestare tutte le ideologie conservatrici, tutte le catene – politiche, religiose, sessuali – che imprigionavano la società francese. Cabu, Wolinski, Maris erano il simbolo di quella fede in una libertà assoluta (quella, emancipatoria, del «vietato vietare» – tutto tranne il velo?) e, al di sopra di tutto, fede nella libertà di criticare, con il mezzo privilegiato dell’umorismo, ogni forma d’autorità. Charlie allora era gioiosamente trasgressivo, e siamo in tanti – nati negli anni ’60, ’70 e ’80 – ad essere cresciuti con la sua risata liberatoria: quelli uccisi a colpi di kalashnikov sono i nostri padri, la cui unica arma era l’umorismo.

 

Bisogna confessare che, a forza di criticare senza tregua le religioni, ormai da anni certe vignette di Charlie Hebdo non facevano più ridere molti di noi: la religione, letta in chiave essenzialista, era diventata in sé e per sé un male da combattere e «le persone che si professa[va]no religiose [erano] dei conservatori, degli alienati, dei frustrati, insomma dei nemici imbecilli della libertà (la loro?)»1. A quelli che lo negano (spesso in buona fede), dicendo che hanno solo continuato la stessa battaglia, quella dell’anticlericalismo, ricordiamo che in uno spazio (sociale, economico, culturale) in movimento, un punto fermo si trova spostato. Attaccare il papa e il clero di una religione maggioritaria negli anni ’70 significava attaccare una borghesia influente in tutte le sfere del potere. Negli anni 2000, sparare contro l’islam in Francia (rappresentando i musulmani come fanatici e le musulmane come donne velate e asservite), significa attaccare una confessione minoritaria, largamente ininfluente sulle istituzioni del potere, e che fa parte, perlopiù, delle classi popolari.

 

Al di là di chi si prende di mira, c’è la questione di chi si vuol far ridere. Negli anni ’70, i giovani ribelli di Hara-Kiri poi di Charlie Hebdo se la prendevano con i poteri in carica e con il loro conservatorismo, facendo ridere giovani e oppressi di varia natura (marginali, sessantottini e sessantottine riconvertiti nelle lotte femministe, ecologiste ecc. ). Negli anni 2000, i redattori di Charlie Hebdo si collocano nell’ambito culturale delle classi medie e alte (parigine), e il loro umorismo offende una parte delle classi popolari urbane, in particolare quando mette in burla l’islam che, per certi abitanti delle periferie, rappresenta l’unica appartenenza positiva a cui aggrapparsi. In effetti, la memoria storica dei loro genitori è quella delle umiliazioni coloniali e operaie; loro stessi sono colpiti dai tassi più alti di disoccupazione, la “sinistra” li ha ampiamente trascurati, se non abbandonati, e subiscono un’islamofobia sempre crescente2. Si è passati dal riso gioioso, minoritario, e liberatorio perché partecipe di un rivolgimento dell’ordine stabilito, a un riso che non ha più niente di trasgressivo, una risata cieca a ciò che le varie affermazioni identitarie musulmane «possono contenere di rabbia e di protesta contro l’abbandono delle periferie e dei loro abitanti»1.

 

Un riso-disprezzo-di-classe? Un riso che in ogni caso ha voltato le spalle da un pezzo ad ampie frange delle classi popolari. So che verrò attaccata – specialmente da persone vicine – per queste parole, ma non riuscivo a scrivere «Je suis Charlie». Grazie a Charlie Hebdo, a Renaud*** e a tanti altri, quando mi si parla di “unità nazionale” sento il rumore di stivali in marcia***, e intono il Disertore invece della Marsigliese. Anziché intimare ai musulmani di prendere le distanze dagli atti della settimana scorsa, o invece di rinforzare le misure di sicurezza per una “guerra contro il terrorismo”, battiamoci collettivamente per avere più cultura e per la giustizia sociale ed economica. E non dimenticate l’essenziale: fate lo humor, non fate la guerra!

 

Note:

(1) Estratto di un articolo di Louis Jésu che si riferiva a Charb nel 2013 (da Libération)

 

(2) Islamophobie. Comment les élites françaises fabriquent le « problème musulman » («Islamofobia. Come le classi dirigenti francesi costruiscono il “problema musulmano”»), Abdellali Hajjat, Marwan Mohammed, edizioni La Découverte.

 

(*) Éric Zemmour, giornalista di Le Figaro, autore del libro Le premier sexe (pubblicato in Italia con il titolo L’uomo maschio da Piemme nel 2007), opera in cui attacca una presunta “castrazione” degli uomini operata dalla società e dal femminismo (N.d.T.).

 

(**) Minute è un settimanale satirico di estrema destra, condannato tra l’altro a una multa nell’ottobre 2014 per incitazione all’odio razziale (N.d.T.).

 

(***) Renaud (nome d’arte di Renaud Séchan) è un noto cantautore di sinistra e “il rumore degli stivali” è una citazione dal titolo di una canzone antiautoritaria di Jean Ferrat (Le bruit des bottes) (N.d.T.).

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