8 Aprile 2017

Quanto costa una vita. Sugli attacchi con armi chimiche nella provincia di Idlib

di Manuela Vigorita

 

Sarà perché sono morti dei bambini, tanti. Sarà perché ci si capisce poco di cosa sta veramente succedendo in Siria. Dove sono piovuti milioni di dollari americani e tonnellate di armi per combattere Assad, contrario alla proposta far transitare in Siria il gasdotto del Qatar verso la Turchia e quindi in Europa, togliendo supremazia alla Russia. Ed è interessante leggere la “gaffe” con cui Joe Biden, vice di Obama, ha ammesso che dollari e armi sono finiti nelle mani degli estremisti della Jihad (http://edition.cnn.com/TRANSCRIPTS/1410/07/ctw.01.html) .

Sarà perché quella bambina tra le braccia del  padre, in una immagine che fa il giro del mondo, ha i capelli scuri come mia figlia. E le “armi chimiche”, usate fuori da regole e codici di comportamento congrui – come se poi in una guerra ci fossero davvero – evocano qualcosa di mostruoso. Come ti difendi? Come puoi provare a sfuggire, a salvare i tuoi cari?  Armi chimiche che diventano la giusta causa per usarne altre non chimiche, ma similmente devastanti, contro i paesi che le detengono, o così si presume, e i civili che ci vivono. Come in Iraq. Come in quella famosa  guerra preventiva, oggi spazzata via come polvere sotto il tappeto. E ripeto: “preventiva”,  quasi fosse una cura, quasi con la morte fosse possibile curare la vita.

Sarà perché quella immagine me ne ricorda un’altra, apparsa qualche giorno fa dopo il raid aereo a Mosul, per il quale gli Usa si sono scusati (230 civili uccisi e molti minori, ma meno indignazione).

Anche lì c’era una  bambina con il capo riverso tra le braccia di un uomo, forse era il padre.

Sarà che questa guerra  sembra terribile, come tutte le guerre. Ma diversa. Se ne parla, si fanno inchieste, trasmissioni televisive, dichiarazioni, denunce, e più se ne parla meno capisco, meno la vita, le singole mi sembrano contare: “effetti collaterali” amano chiamarli i morti.

Adesso quello che appare prioritario è capire se veramente gli aerei di Assad hanno bombardato con armi chimiche, come sostiene la Turchia, l’Europa e gli Stati Uniti, per intenderci quelli interessati al gasdotto del Qatar. Oppure se quegli aerei hanno bombardato una fabbrica di armi chimiche dei ribelli, gli stessi (pare) sostenuti da armi e dollari americani, come ha affermato la Russia prendendo le parti di Assad. O ancora, come molti ipotizzano sul web, se non si tratti addirittura di un attacco orchestrato appositamente per far ricadere su Damasco la responsabilità di usare armi chimiche e dare così valido motivo agli Usa di  rompere gli indugi con la Siria. Trump ne sta parlando in queste ore.

Lo so, è tutto così complicato che è difficile parlarne, capire quale sia la realtà.

Eppure le immagini di quelle bimbe con le braccia penzolanti, strette al petto dai padri, a me non parlano di questo.

Cosa ci manca? Cosa ci sta mancando per dire, capire, contare? Per fermare quegli aerei che assieme ai civili bombardano la nostra illusione di essere protetti, sicuri, lontani, nel giusto. E innocenti.

Leggo, mi informo, a volte colgo sintesi più interessanti di altre, ma è tutto così confuso e assurdo. Sembra che da una parte ci sia l’amata vecchia Europa, i grandi Stati Uniti dai verdi pascoli che spargono guerre nel mondo in nome della libertà e della democrazia, trovano appoggi in Israele, Turchia, Qatar, Arabia Saudita, armano miliziani che poi non sanno controllare. Dall’altra Damasco, la Russia, l’Iran, interessato a costruire un gasdotto diverso fino in Siria, e la Cina che pone veti alla richiesta delle Nazioni Unite di compiere indagini sugli ultimi movimenti aerei siriani. E in mezzo i mostri del terrorismo, quelli che bruciano e sgozzano la gente, che armati da una parte combattono l’altra e nel contempo fanno attentati ovunque, collegati e diretti non si sa da chi non si sa da cosa. E quelle bimbe che sembrano dormire, addormentate a forza da questa follia.

Ma chi sono? – chiedeva una cara amica parlandone – Chi sono questi soldati che bombardano i civili, che usano armi chimiche? Chi sono questi uomini che decidono dal cielo? E cosa significa oggi essere un soldato? Ha ancora il significato di difendere, proteggere, essere pronti a dare la vita per qualcosa di più grande della propria? Un paese, una civiltà, una storia?

Non so, a me mancano  i termini, i parametri, gli schemi etici, filosofici per capire o interpretare i fatti. Come se tutto fosse oltre la mia, la nostra portata. Come se la verità fosse qualcosa di ormai inesorabilmente inafferrabile.

Eppure quelle immagini, quelle piccole mani abbandonate e gli occhi di quei padri, che le tengono a sé tra le braccia, sospesi in un tempo infinito, mi dicono altro. Mi parlano di qualcosa che io conosco bene, che so. Posso rimuovere, dimenticare, far finta di non vedere. Ma io lo so quanto costa una vita. So quanto corpo, quante cellule, quante persone e soldi e tempo, quanta fatica ci vuole per costruirla e far crescere un bimbo, una bambina. Una piccola mano, un sorriso, un vestitino, del latte, un pigiama e parole, tante parole. Quanto ci vuole ogni giorno per spazzolarle i capelli, nutrirla, proteggere i suoi passi e anche i suoi pensieri.  Accompagnare le sue scoperte, fiutare pericoli e dolore. So quanto serve a volte farsi indietro o da parte, usare mani e saperi, insegnare, lodare, sgridare.  E so che non sono l’unica a saperlo.  

Forse, bisogna dirlo. Forse bisogna imparare a ricordarlo e ricordarlo, ricordarlo. In ogni luogo, in ogni mezzo, in ogni tempo. E fare decine e decine di film, centinaia di trasmissioni televisive, scrivere milioni di romanzi e saggi e poesie, fare telegiornali e inchieste, summit e conferenze, corsi universitari e tavole rotonde, giornate intere di discussioni parlamentari, e manifesti pubblicitari, quadri e sinfonie, concerti e opere architettoniche immortali per ricordare quanto costa. Quanto costa una vita. Una singola vita.

 

(www.libreriadelledonne.it, 08/04/2017)

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