23 Settembre 2014
Quotidiano del sud

Quelle anime nere così poco attuale


di Franca Fortunato

FINALMENTE, dopo aver sentito parlare tanto e letto qualche commento anche su questo giornale, venerdì sera ho visto il film di Francesco Munzi “Anime nere”. Sono d’accordo con Annarosa Macrì che “un film” “come un libro” “ non è fatto per i critici, ma per gli spettatori” e le spettatrici. Ed è come una di queste che voglio qui esprimere il mio pensiero e le mie riflessioni. Il film per quanto mi riguarda l’ho trovato molto buono ma poco attuale. Buono perché ti porta dentro una famiglia mafiosa tradizionale, ti fa vedere, più di tanti libri e analisi antropologiche e sociologiche, come la ‘ndrangheta sia un’organizzazione maschile patriarcale, dove sono gli uomini i protagonisti, la mente, gli organizzatori non solo degli “affari” ma anche delle regole, delle leggi con cui governano la famiglia mafiosa dove ogni donna e ogni uomo ha un suo posto fisso. Eloquente la prima mezzora del film in cui ad occupare tutta la scena sono solo uomini, impegnati a portare avanti i loro “affari” di trafficanti di droga e imprenditori, nella città che è il cuore della finanza e del capitalismo italiano, Milano, senza aver reciso i legami con la famiglia e il luogo d’ origine, Africo. Milano è la stessa città dove la famiglia mafiosa dei Cosco ha ammazzato la testimone di giustizia Lea Garofalo e dove riposano i suoi resti. Il film nel narrare la storia di una delle tante famiglie mafiose calabresi i cui protagonisti, i fratelli Luciano, Luigi e Rocco, magistralmente interpretati da Fabrizio Ferracana, Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, che pure fanno scelte di vita diverse dopo l’ammazzamento del padre, sono uomini di una ‘ndrangheta che non conosce, non fa i conti con le donne che abbandonano la famiglia in nome della propria libertà e di quella delle loro figlie e figli. Non c’è nel film nessuna Giuseppina Pesce, nessuna Maria Concetta Cacciolla, nessuna Lea Garofalo o Denise, nessuna Tina Buccafusca, ma solo donne, madri, sorelle, figlie, imbalsamate, stereotipate in figure immutabili, invisibili il cui compito è solo quello di “amare”, servire i propri uomini, ascoltare, tacere, fare finta di non sapere e piangere il marito, il fratello ammazzato in attesa del prossimo. La famiglia di ‘ndrangheta, per fortuna o per sfortuna, non è più una realtà fissa, immutabile, dopo le scelte di quelle donne coraggiose di cui il film non dà conto. Mette in scena, invece, l’idea tutta maschile e androcentrica che il riscatto dei mafiosi – qualcuno dice della Calabria – non può non venire che dai soli uomini, da un solo uomo, Luciano che da dentro la famiglia uccide chi, come il fratello Rocco, rappresenta la continuazione di quella cultura mafiosa fatta di vendette e guerre tra famiglie. Quasi per dire che per gli uomini, dopo aver ucciso i padri, non ci può essere, in nessuna realtà politica o sociale, un “nuovo” inizio senza un fratricidio, reale o simbolico. Finché le donne saranno viste come accessori, dalla ’ndrangheta e dai “professionisti” dell’ anti ‘ndrangheta, dall’ arte e dall’antropologia, continuerà a sfuggire a costoro la realtà profonda di una Calabria che è già cambiata, che sta cambiando anche la storia della ‘ndrangheta, grazie alle donne. E ci sarà sempre chi tra loro continuerà a rivendicare ed auspicare quello che già c’è, il “normale”, e che non è capace di vedere e raccontare, fissato com’è nell’idea che ogni riscatto è da venire per opera degli uomini, senza o indipendentemente dalle donne, come racconta anche il film. Se l’arte e l’antropologia – come sostiene Vito Teti – non colgono le novità e non indicano prospettive sono sterile. Non c’è prospettiva per la Calabria se non si riconosce quello che già c’è e che, cambiando nel profondo questa terra, aspetta solo di essere visto e raccontato dai più. Luciano, non immune da quella cultura da cui vuole tenersi fuori , quando davanti ai carabinieri osserva una delle regole più ferree della ‘ndrangheta, l’omertà, come fanno e devono fare le donne della famiglia, non è la speranza, né la strada per il riscatto della Calabria. Non solo e non tanto perché è un personaggio totalmente inventato, dentro la ‘ndrangheta non esiste a tutt’oggi uno simile a lui, ma essenzialmente perché non mette in discussione il suo rapporto con le donne della famiglia. Nessun riscatto è possibile senza la libertà femminile. Non si può affidare il futuro della Calabria a personaggi da romanzo e ignorare, invece, donne in carne ed ossa che, a duro prezzo, hanno già aperto in questa terra una strada di riscatto per sé e per tutte/i noi. Luciano, come i suoi fratelli, questo non lo sa, come dimostrano di non saperlo neppure il regista e il produttore. Un film buono, ripeto, con attori splenditi, bravissimi, ma che non dà conto della Calabria di oggi, di quel cambiamento da cui solo può nascere la speranza per questa terra ed aprire nuove prospettive.

 

IL QUOTIDIANO DEL SUD IL 23.09.2014

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