Cinema. Incontro con Céline Sciamma. Il suo nuovo film «Diamante nero», in sala da giovedì 18 giugno, è uno scanzonato romanzo di formazione al femminile nella banlieue parigina oggi
La prima volta è stata Naissance des pieuvres, sensualità, ribellione e scoperta del corpo di un’adolescenza lesbica in cui si rivelava il talento di una nuova cineasta. Qualche anno dopo Céline Sciamma torna con Tomboy, una ragazzina che vuole essere un maschio. È un successo mondiale, premiato ovunque, parla di gender, di femminile e di maschile ma lo fa spostando il punto di vista delle contrapposizioni al desiderio. Bande des filles, il suo nuovo film, titolo d’apertura della Quinzaine des Realisateurs 2014, in Francia subito un caso critico, applauditissimo e amatissimo, arriva infine in sala anche da noi (domani, giovedì 18) grazie a Teodora film a cui si deve per l’Italia la scoperta di questa splendida regista (avevano distribuito anche Tomboy).
Ancora una storia al femminile, una «banda di ragazze» scatenate che con irriverenza e molta energia sfida i codici della banlieue dove vive, quelli fisici e prima ancora quelli di un immaginario che ha imprigionato le cité in un genere rigidamente codificato tra machismo, integralismo, velo, criminalità e repressione poliziesca. Ma, appunto, le etichette di genere non appartengono a Sciamma, difatti le rompe anche stavolta allegramente e con dolcezza, danzando insieme alle sue magnifiche protagoniste sulle note di Diamonds di Rihanna — da cui il titolo italiano, Diamante nero.
La incontro a Roma, un’afosa mattina di questo inizio estate, nel salone con vista sulla città di Villa Medici. Minuta, occhi azzurri, idee chiare, il cinema per lei è uno strumento con cui dare corpo e emozioni agli individui e alla loro singolarità. Ogni film è un macchina per cambiare identità, dice. «Il femminile è sovversivo, è una forma di contro-cultura, è un contro-potere per questo viene percepito come una minaccia».
Le ragazze della «Bande des filles» vivono tutte nella banlieue parigina. Ma il tuo film che qui esce col titolo di «Diamante nero» come canta Rihanna il loro mito somiglia più a un romanzo di formazione.
All’inizio avevo in mente due cose: un’eroina ragazza alle prese con dei cambiamenti importanti e una storia eterna ma calata nel contemporaneo. Sono i due elementi classici del romanzo di formazione che qui si contestualizza in un ambiente, la periferia. Marieme, la protagonista, ha qualità tipica dell’eroismo solo che nel romanzo di formazione il personaggio coltiva anche delle ambzioni dei progetti, è legato a una classe. Nel mio film invece l’eroina afferma sé stessa su un rifiuto, sul desiderio di rifiutare tutte le identità che la società le propone, che le chiede di essere, e che nel corso della storia attraversa una dopo l’altra. Il suo movimento narrativo e esistenziale è dire no. Credo che questa sia una caratteristica forte del nostro tempo, la protesta oggi prende forma soprattutto nel rifiuto di qualcosa. Anche quando si vota se ci pensi si vota sempre «contro» qualcosa o qualcuno, raramente «per». Se non si sa cosa dire si sceglie il rifiuto, resistere è diventato dire no: non voglio questa società, non voglio i modelli che mi impone la politica, è il pensiero della contestazione più diffuso. E la periferia è il luogo dove questo rifiuto si afferma con maggiore forza.
Scegliere il paesaggio della periferia parigina può essere però artisticamente molto rischioso. Il cinema della banlieue, a parte pochi casi, risponde in Francia a caratteristiche molto nette.
Ma il sentimento del rifiuto che guida le mia protagoniste riguarda anche le mie scelte da regista. Nel film non c’è polizia, non si parla di religione, non c’è l’hip hop non ho cercato un effetto da realismo sociale per dire: ’ecco, questo è un film politico’. Politico per me significa qualcos’altro, è chi guarda e cosa si guarda, perciò non la macchina da presa a spalla o il grigio con cui di solito si impasta l’immagine delle periferie. I personaggi che racconto nascono da un lavoro di scrittura e appartengono a una dimensione romanzesca anche se nel lavoro di preparazione ho incontrato trecento ragazze, mi sono documentata, ho conosciuto un generazione e cercato delle corrispondenze. Con le ragazze naturalmente c’è stata una collaborazione, a me però interessava soprattutto dare vita a dei personaggi capaci di esprimere una loro energia e una lingua propria. Non avevo in mente, e questo sin dall’inizio di fare il ritratto di una ragazza della cité.
In che senso?
Le ragazze del film parlano molte lingue, possono essere bambine che saltano su un letto o donne mature. Ho cercato di raccontarle nelle diverse sfumature possibili tra la libertà e gli archetipi. In questa oscillazione appare anche la violenza, come viene creata dalla società, da dove arriva, cosa significa appartenere a un gruppo pure nell’illegalità…Ho provato a interrogare i cliché e a investirli emotivamente. Insieme al musicista (Para One, nome d’arte di Jean-Baptiste de Laubier, ndr)abbiamo cercato i suoni urbani del presente, quale musica si sente nelle periferie senza la dittatura del folklore.
La narrazione è scandita in capitoli. Perché?
È una scelta che risponde alla stessa esigenza di uscire fuori dalle convenzioni. Ogni capitolo indaga un’ipotesi di vita, un po’ come se fossimo in un film di supereroi: che potere mi dà un certo costume? In che modo lo utilizzano le ragazze? E i cambiamenti di identità diventano anche un modo per indagare l’impasse del patriarcato. Quando si parla di «cinema d’autore impegnato» si pensa subito a certi film o registi. A me piace l’idea di combinare Ken Loach e Tim Burton, rifiuto la frontiera che divide nel senso comune «impegno» e «fantasia». Vvoglio invece pensare a un film come a un’esperienza sensuale in cui tutti possono riconoscersi, e emozionarsi. L’impegno non esclude i sentimenti e viceversa.
Per questo la scelta del luogo in cui girare era fondamentale. Come ci sei arrivata?
Durante i sopralluoghi abbiamo visto moltissimi quartieri, avevo in mente un posto dove ci fosse un’isola pedonale e un orizzonte in cui la Torre Eiffel non apparisse troppo lontana. Le banlieue presentano un segno grafico molto forte perché spesso sono nate dalla grandi utopie architettoniche degli anni Sessanta o Settanta. Filmare in una banlieue significa seguire delle linee di fuga, delle modalità di muoversi, come ci si ritrova, come si sta da soli. Il modo in cui la cité provoca delle esperienze sensoriali con le grida, i gruppi di ragazzi che si fermano in certi posti in cui tacitamente cade il silenzio quando ci si avvicina. Lavorare lì è davvero un’esperienza di frontiera. I problemi sono gli stessi che ovunque con la differenza che non sono sotterranei. Si manifestano a cielo aperto, e per questo la banlieue è diventato un luogo della finzione: non siamo in una dimensione esotica, al contrario la realtà vi appare con maggiore evidenza. Machismo, rapporto tra spazio pubblico e privato, controllo reciproco si ritrovano infatti in tutta la nostra società. Solo che in una banlieue sono «ufficiali», e in questo senso la banlieue è lo specchio del nostro mondo.
(Il Manifesto 17 giugno 2015)