13 Agosto 2013
Il fatto quotidiano

Restituire dignità non è materia di legge

di Daniela Ranieri

La tragedia del quattordicenne che si è ucciso perché emarginato in quanto gay ha prodotto uno choc. Come tutti gli choc, anche questo non dà quasi tempo di pensare: il coro si alza unanime: bisogna fare una legge perché non accada più. Il meccanismo basato su fatto di cronaca-legge è una finta soluzione, il cui perno non è l`eliminazione definitiva del danno ma l`occultamento temporaneo delle sue ragioni, una specie di reazione igienica che somiglia alla rimozione, istantanea e emotiva. In questo esorcismo di massa, si ignora volutamente che una legge che estenda all`omofobia e alla transfobia l`art. 3 della legge Mancino, che prevede un`aggravante della pena per i reati commessi sulla base di “discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, è auspicabile a prescindere dal gesto insopportabile e toccante di un adolescente che capitola di fronte alla derisione e alla violenza dei coetanei, a loro volta epitomi, vittime e mezzi di trasmissione dei valori di una società intera.

La cultura del rispetto passa per un`educazione civica sui temi etici che dovrebbe impegnare la politica più in profondità che non con una legge nuova o l`aggiunta di due parole a una vecchia: come per la questione del cosiddetto femminicidio, che si tenta ipocritamente di sterilizzare, passa per la formazione, che in un Paese in cui la retorica del fare ha preso il sopravvento sulla pratica del pensare e in cui le scuole vengono sempre più aziendizzate non può permettersi di veicolare l`idea che diritti e doveri fanno parte di un`educazione alla bellezza e alla felicità; che ladreria e furbizia non pagano e anzi sono punite; che la prepotenza non fa diventare potenti, o ministri; che linguaggio e azioni sono porzioni contigue del diritto di tutti di vivere in una società.

Possibile che si accetti di considerare come uniche le due alternative: quelli che vogliono punire per legge chi si dichiara
contro i matrimoni gay, e quelli che la legge non la vogliono per continuare a chiamare i gay “froci”? Possibile che si sia ancora al punto per cui il diritto di disporre della propria persona sia bloccato dalla moratoria di una parte politica che teme di perdere il consenso del suo elettorato più gretto, limitato e meschino (magari lo stesso a cui oggi scappa una lacrimuccia e invoca una pena)? Non è fuori di dubbio, benché sia comodo, credere che la derisione dei bulli, il sorrisetto maligno, la mossa dell`indice all`orecchio, possano costituire istigazioni a commettere reati contro chi ne è oggetto, o al suo suicidio. Non rientrano tutti questi casi nell`universo del buon senso per cui non bisogna molestare la gente?
E giusto che si cominci a chiamare tutte le forme di violenza e di offesa, anche le più subdole, col loro nome di reato, e che chi ne è oggetto possa fare appello alla legge che lo regola; ma è il caso di diffidare del desiderio di punizione sorto a caldo, che non è quasi mai un sintomo affidabile di progresso.

Immaginare che quei ragazzini che deridevano il povero ragazzo subiscano un castigo esemplare è solo uno sfogo, che è più contiguo al moralismo di quanto si pensi, e pertiene a quella sfera del politically correct che è solo un velo linguistico che occulta e irrigidisce ogni ragionamento.
Non si riflette che quando un adolescente arriva a togliersi la vita perché gay, è perché nei contesti in cui vive non è riuscito a immaginare nessun futuro possibile per lui o lei anche in quanto persona gay. Né sull`effetto devastante non
solo del mancato diritto (alle unioni tra persone dello stesso sesso, ad esempio), ma anche del doppio vincolo per cui la società, magari con una legge instantanea, stabilisce che sei sì uguale agli altri, ma quello che tu definisci amore non è amore, e necessita di un brevetto, di una deroga, di una concessione, disconfermando la tua stessa percezione del mondo. “Nel frattempo si spera che altri gay non si ammazzino”, dice fondatamente Natalia Aspesi su Repubblica. Appunto: facciamo in modo che il progresso non finisca per essere un processo schizofrenico di stimoli di morte e risposte di parole.

(Il fatto quotidiano – 13 agosto 2013)


Print Friendly, PDF & Email