23 Marzo 2013

Riprendiamoci la città

Roma, incontro delle Città Vicine

Intervento di Antonella Cunico, Femminile plurale

 

L’appello che invita all’incontro delle Città Vicine risuona in modo significativo a Vicenza, città del Palladio, città d’arte, ma anche, come voi amiche sapete, città militare.

È di ieri l’annuncio, nel “Giornale di Vicenza”, della prossima apertura della base alla città, evento previsto per il 4 maggio, denominato open day, con tono celebrativo, come si trattasse dell’inaugurazione di una grande opera per la città. Se ne parla come della “più costosa opera pubblica mai realizzata a Vicenza”. Evidentemente il dato più impressionante consiste nella profusione di dollari, 500 milioni. E ancora si insiste sul numero degli italiani che lavoreranno all’interno della base, novecento fra ingegneri, cuochi, meccanici, pompieri, ragionieri, interpreti. Più in là si dice, come se fosse irrilevante, che da quando Bush e Berlusconi si accordarono affinché l’area del Dal Molin fosse ceduta all’esercito americano la situazione è completamente cambiata; che negli ultimi anni il Pentagono ha riorganizzato le forze militari stanziate in Europa riducendole da 150.000 a 50.000 unità.

Non se ne deduce che quindi la costruzione è sovradimensionata rispetto al numero delle persone che dovrà accogliere. Il giornalista sembra descrivere con ammirazione il complesso, una città nella città, cinquemila persone, un intero quartiere: le foto inquadrano la prospettiva geometrica del palazzo che ospita il quartier generale, l’articolo stesso si apre con l’affermazione che “dal quinto piano del silos numero due si gode una vista seconda solo alla terrazza della basilica palladiana”.

L’imponenza degli edifici occulta la devastazione inflitta al territorio: nonostante si vedano, oltre il reticolato, gli acquitrini che le ultime piogge hanno provocato, nonostante in questi giorni ci sia un via vai di tecnici che compiono misurazioni, il colonnello Buckingham sostiene che non c’è stato impatto sul sistema di drenaggio. Tuttavia non risponde alle domande che riguardano lo stoccaggio di armi e munizioni, gli scarichi abusivi e soprattutto lo stato della falda. Dopo la palificazione si sono verificati fenomeni che sembrerebbero confermare l’ipotesi di un’alterazione dell’equilibrio idrogeologico della zona: quartieri che storicamente non furono mai a rischio di alluvione da due anni vengono allagati a seguito delle normali piogge stagionali. Evidentemente il livello della falda si è alzato.

Eppure la città sembra non voler prendere atto dello scempio, non protesta più, la gente tende a volgere lo sguardo da un’altra parte e reagisce con fastidio alle iniziative volte a richiamare l’attenzione sul problema. Certo, il presidio permanente esiste ancora, ma non è più permanente, è per lo più desolatamente deserto. Ancora si mobilitano i diversi gruppi che compongono il movimento No Dal Molin, ma non riescono ad aggregare numeri significativi di cittadini e cittadine. La maggior parte delle persone tende a rimuovere la questione, il movimento sembra entrato in una crisi irreversibile.

Incontrando le donne della Città Felice a Catania nel maggio scorso osservavo che sarebbe stata necessaria una fase di riflessione per ripartire, che sarebbe stato necessario effettuare un bilancio. Questa parola, “bilancio”, con la sua allusione economica alle entrate e alle uscite con il significato etimologico di strumento per misurare il corpo, invita alla ricerca di un nuovo equilibrio. C’è infatti sempre nel bilancio un equilibrio fra costi e ricavi, entrate e uscite: la differenza non è un vuoto, ha sempre un nome che la definisce e la quantifica ed è quel nome, avanzo o disavanzo che indica la direzione per immaginare il futuro.

A Vicenza si potrà ripartire, dicevo, dopo che si sarà sgomberato il campo dai detriti, dai corpi morti che rimangono dopo la tempesta, come si faceva un tempo in montagna, in campagna dopo una brutta stagione: con pratiche di riparazione, con la messa a punto di nuovi strumenti, con la ricerca di un nuovo equilibrio.

Noi donne di femminileplurale già dal 2009 abbiamo cercato di operare uno spostamento, di non connotare la lotta sulla contrapposizione alla costruzione della base: pur mantenendo intatto l’antimilitarismo e la nonviolenza, abbiamo cercato di convogliare energie e pensiero per immaginare un’altra città. Luisa Muraro diceva infatti, in tempi in cui la costruzione non era ancora iniziata: Non agitatevi davanti a quello che non potete impedire, non fatevi misurare da quello che non dipende da voi, custodite lo spirito dell’impresa, con la certezza che le parole di pace e l’esempio di una pratica politica civile e aperta, continueranno a lavorare nella società intorno a voi, irrobustitevi nelle difficoltà, voi sapete ridere e sorridere, ebbene, continuate, in mezzo alle burrasche che si annunciano.

Di fronte alla crisi abbiamo così cercato innanzi tutto di consolidare noi stesse, di trovare una nostra misura attraverso la riflessione sul pensiero di donne che consideriamo maestre. Abbiamo cercato di promuovere il pensiero della forza e di costruire raccordi con altre donne, in città e fuori.

Nel frattempo la base è stata costruita, Vicenza ha subito un’alluvione catastrofica, il movimento è entrato nella fase della regressione, qualcuno lo considera morto. Ma non è così.

Abbiamo osservato le modalità con cui tutti i gruppi hanno attraversato la crisi: alcuni esasperando la conflittualità interna, altri con pratiche volte alla rielaborazione del lutto, scegliendo di stare in presenza del negativo, sperimentandone le pratiche di trasformazione.

Le donne in Rete per la pace, alle quali si deve la ricostruzione per immagini del percorso del movimento, hanno riflettuto sull’importanza del fare memoria e hanno raccolto le immagini più significative del percorso, dal 2006 al 2013, commentandone le tappe. Le immagini che ne sono uscite, hanno detto, “stupiscono per la quantità, la varietà e ricchezza di tanti momenti comuni, di intrecci tra le realtà diverse che testimoniano”. Pur nella differenza delle posizioni, nei momenti cruciali siamo state e stati tutti insieme. E da qui bisogna ripartire.

Le donne di cui sto parlando si definiscono “sopravvissute per l’onore del nostro popolo sommerso” (e attribuiscono al termine sommerso sia un significato metaforico, sia una condizione reale, quella che abbiamo patito con l’alluvione). Vogliono continuare, nonostante tutto, a denunciare la situazione abnorme di Vicenza, che con le sue otto installazioni militari statunitensi ed europee è attualmente la città più militarizzata d’Europa.

Noi ne condividiamo la posizione. Anche noi, come loro, abbiamo sentito la necessità di guardare al nostro interno, di ripensare le relazioni fra donne (a partire dal Diario di Carla Lonzi), e le pratiche politiche in atto in Italia e in altri Paesi dove donne e uomini si sono messi in gioco determinando il cambiamento, con un lungo lavoro di documentazione sulle Primavere arabe. Per certi aspetti abbiamo lavorato con le stesse finalità, la resistenza, loro sul versante delle pratiche del negativo, noi sul versante delle pratiche della forza. In comune, oltre alla consapevolezza decisiva del valore della nostra differenza, abbiamo la consapevolezza di essere una minoranza.

Riporto un passo da loro citato: Una minoranza deve enunciare una posizione ben definita sul problema in questione e rimanervi saldamente fedele opponendosi per tutto il tempo alle pressioni esercitate dalla maggioranza. L’unica risorsa che ha a disposizione per affermare la propria posizione è quella di darsi uno “stile di comportamento” coerente e unanime, capace di attrarre interesse e stima dall’esterno: ciò significa che da un punto di vista diacronico il comportamento deve essere ripetuto in modo sistematico e non contraddittorio e da un punto di vista sincronico la minoranza deve essere compatta nell’espressione della propria posizione (Serge Moscovici, Social influence and Social change, 1976).

Noi ci sentiamo a Vicenza una minoranza attiva, sia nel nostro modo di intendere il femminismo, sia come parte del movimento antimilitarista.

Come le donne in Rete e come altri soggetti del movimento sappiamo che oggi è importante continuare a mantenere alta l’opposizione alla città militare, mostrare coerenza nell’assunzione di una pratica politica, la nonviolenza, e resistere serenamente all’indifferenza, alla pressione, all’ostilità che di volta in volta potranno manifestarsi, mantenendo la nostra indipendenza di giudizio e di pensiero. È necessario un lavoro continuo per arginare il disordine del quotidiano e per vigilare anche nella cura “ordinaria” della nostra città.

Abbiamo cercato di apprendere nuovi modi di immaginare gli spazi, in questo ci è stato utile il confronto con le amiche della Città Felice, con le Vicine di casa, la discussione del loro lavoro Architetture del desiderio (Liguori 2011). Dovremo ripartire da qui, riprendendo il confronto e la condivisione con le donne dei gruppi che operano in città, consolidando la relazione con i gruppi di donne che altrove lavorano mettendo al centro l’amore per la loro città, la riflessione sull’esperienza. Anche oggi siamo qui per incontrare altre realtà, per confrontarci, per apprendere altre modalità di essere cittadine attive, per conoscere le soluzioni individuate per risolvere problemi comuni.

Come le donne nostre simili vogliamo “tessere relazioni per imparare modi diversi e nuovi di agire, scambiare informazioni e pratiche, sostenerci a vicenda, dare eco più vasta a movimenti dai mezzi limitati e privi della visibilità nei media. Costruire a poco a poco un sistema di alleanze e una cultura di partecipazione diffusa per riprendere in carico la responsabilità di curare i nostri territori”.

A partire da noi e dal quotidiano desideriamo misurarci con la realtà, condividere esperienze, lavorare affinché nel tempo si renda possibile la trasformazione, per una città diversa, di cui continuiamo a intravvedere i segni. Per poter divenire, serve il coraggio di sognare ad occhi aperti e non lasciarsi immobilizzare dal cemento armato del principio di realtà. Per poter divenire, bisogna essere in molte e non sentirsi sole. Portare avanti il progetto di costruzione di una rete simbolica tra donne e altri soggetti nomadi (Rosy Braidotti).

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