9 Marzo 2014
Alias

Sangue d’Europa e spirito greco

di Olivia Guaraldo

 

Con nuova tra­du­zione e appa­rato di note otti­ma­mente redatto, escono da Adel­phi tutti gli scritti di Simone Weil su Omero, Pla­tone, i pita­go­rici e i tra­gici, a cura di Maria Con­cetta Sala e Gian­carlo Gaeta (La rive­la­zione greca, «Biblio­teca» Adel­phi, pp. 489, euro 28,00). Esi­steva già una ver­sione ita­liana di alcuni di que­sti scritti, La Gre­cia e le intui­zioni pre-cristiane, pub­bli­cata da Borla nel 1967. Men­tre però quest’ultima tra­du­ceva sia nel titolo che nei con­te­nuti le due rac­colte postume Intui­tions pre-chrétiennes (pub­bli­cate da Padre Per­rin nel 1951) e La source gréc­que (voluta dai fami­liari di Weil e da Albert Camus nel 1953), l’edizione Adel­phi si basa sul lavoro che dal 1988 sta por­tando avanti l’équipe di stu­diosi gui­data prima da André A. Devaux, poi da Flo­rence de Lussy e Robert Che­na­vier: la pub­bli­ca­zione siste­ma­tica di tutti gli scritti della pen­sa­trice fran­cese. Il let­tore ha la pos­si­bi­lità di seguire così, in ordine cro­no­lo­gico, la rifles­sione di Weil sui clas­sici, e di capire come, e da quali fonti, il suo pen­siero prenda forma negli anni a ridosso della seconda guerra mon­diale. È infatti in que­sto periodo, dal 1938 alla morte, avve­nuta nel 1943, che matura, a par­tire dalle rifles­sioni sulla sven­tura, la forza e la vio­lenza, la svolta mistica, o meglio, la tor­sione ori­gi­na­lis­sima che la farà avvi­ci­nare al cri­stia­ne­simo e alla con­ver­sione. Non è certo con­tin­gente la suc­ces­sione di que­sti due momenti: già negli scritti sulla guerra, pub­bli­cati tra il ’33 e il ’43 in varie rivi­ste della gau­che fran­cese (e rac­colti in ita­liano in Sulla Guerra, Pra­ti­che 1993), Simone Weil ana­lizza luci­da­mente il corto cir­cuito nichi­li­sta su cui le pre­messe guer­ra­fon­daie dei grandi appa­rati ideo­lo­gici del Nove­cento si fon­dano e si giu­sti­fi­cano. La gran­dezza e l’importanza dei con­flitti si desume non tanto dagli obbiet­tivi che una guerra si pre­figge (essi sono, afferma Weil nel cele­bre sag­gio «Non rico­min­ciamo la guerra di Troia» del 1938, straor­di­na­ria­mente assenti dagli inci­pienti con­flitti sul con­ti­nente euro­peo) ma dal numero di cada­veri che produrrà.

Per riflet­tere sen­sa­ta­mente sulla vio­lenza nel momento in cui essa sta per tra­vol­gere l’Europa e il mondo, pare dirci Simone Weil, è neces­sa­rio andare all’origine della civiltà occi­den­tale, a quell’unica fonte di cono­scenza che la nostra cul­tura deve rico­no­scere come pro­pria, non certo per esal­tarne tratti di pre­sunta supe­rio­rità ma per capire ciò che al suo ini­zio ne ha carat­te­riz­zato i tratti essen­ziali o, come direbbe lei, «spi­ri­tuali». È come se la filo­sofa fran­cese volesse ren­dere espli­cito ciò che nei testi clas­sici resta peri­co­lo­sa­mente impli­cito, sof­fo­cato dagli spe­cia­li­smi e dalla filo­lo­gia, ten­den­zio­sa­mente uti­liz­zato – non solo dai tede­schi – a sigillo defi­ni­tivo di un’indiscutibile gran­dezza dell’occidente. Forse anche per que­sto motivo decide, durante l’esperienza del lavoro in fab­brica a Rosié­res, di tra­scri­vere per gli ope­rai le tra­ge­die sofo­clee Anti­gone ed Elet­tra, rite­nendo che siano «molto più toc­canti per la gente comune, per coloro che sanno cos’è lot­tare e sof­frire, piut­to­sto che per chi ha pas­sato la vita tra le quat­tro mura di una biblioteca».

Niente di eroico o gran­dioso – nel senso banale del ter­mine – è pre­sente nella rive­la­zione greca, ma la con­sa­pe­vo­lezza dell’umana sven­tura e il ten­ta­tivo di libe­rarsi da essa attra­verso la cono­scenza, il con­tatto mistico con il divino. Omero e Pla­tone rap­pre­sen­tano i due poli entro i quali tale per­corso di con­sa­pe­vo­lezza e di ascesa prende forma. In Omero, a cui è dedi­cato lo straor­di­na­rio sag­gio «L’Iliade, o il poema della forza» (qui in nuova tra­du­zione, leg­ger­mente dif­fe­rente rispetto a quella di Cri­stina Campo già apparsa ne La Gre­cia e le intui­zioni pre-cristiane), Weil rin­trac­cia il vero spi­rito greco, intriso di uma­nità e com­pas­sione, equa­nime rispetto a vin­ci­tori e vinti, tutti ugual­mente sot­to­messi al potere rei­fi­cante della forza. La vio­lenza della bat­ta­glia, la bru­ta­lità dello scon­tro, l’ira dei guer­rieri e la loro sete di san­gue non sono da Omero cele­brati, bensì rac­con­tati con un rea­li­smo che ne esalta, per scon­giu­rarla, la dimen­sione ani­male, natu­rale, neces­sa­ria. La forza che nei com­bat­ti­menti tra greci e tro­iani si mani­fe­sta non è indice di corag­gio ed eroi­smo, bensì un’entità che sovra­sta e pos­siede i mor­tali, e che non può che «ridurli a cose», sia che essi agi­scano o subi­scano la vio­lenza. Se il vinto è ridotto a cosa per­ché tra­sfor­mato dal vin­ci­tore in schiavo o in cada­vere, anche il vin­ci­tore è sot­to­po­sto alla forza rei­fi­cante della vio­lenza per­ché eser­ci­tan­dola egli «muta in pie­tra», «perde l’intera vita interiore».

L’insuperata con­sa­pe­vo­lezza greca per la fra­gi­lità e la fini­tezza esclu­si­va­mente umane – non vi par­te­ci­pano infatti gli dèi, gli immor­tali, capric­ciosi registi-spettatori di uno spet­ta­colo che si nutre delle disgra­zie umane –, non poteva che rap­pre­sen­tarsi nella forma di uno scon­tro vio­lento, che la poe­sia, con i suoi accenti, «rari e di breve durata», su ciò che alla vio­lenza rei­fi­cante sfugge, sem­bra voler esor­ciz­zare. Para­dos­sal­mente, dun­que, si potrebbe dire, seguendo la let­tura di Weil, che se la vio­lenza riduce gli uomini a cose, la poe­sia ome­rica – con la sua impar­zia­lità su vin­ci­tori e vinti, con la sua pre­di­le­zione per gli scon­fitti – tenta costan­te­mente di ri-trasformare quelle cose senz’anima in uomini. È sin­go­lare che una simile visione dell’epica ome­rica – una visione che non cele­bra i fasti e i trionfi degli eroi greci, come una certa visione viri­li­sta della gre­cità aveva con­tri­buito a raf­for­zare e dif­fon­dere in Europa, da Nie­tzsche in poi – fac­cia con­ver­gere, con le dovute dif­fe­renze, Simone Weil, Han­nah Arendt e Rachel Bespa­loff. Una pic­cola schiera di pen­sa­trici di ori­gine ebraica che rileg­gono, attorno agli anni bui del Nove­cento in Europa, Omero con occhi cri­tici verso il canone occi­den­tale (e maschile) della tra­di­zione, è più di una coin­ci­denza e dovrebbe far riflettere.

Da Omero a Pla­tone, la svolta mistica si com­pie, nel per­corso wei­liano, attra­verso una let­tura del filo­sofo ate­niese che ne sot­to­li­nea la valenza «sopran­na­tu­rale», ter­mine a cui spesso Weil ricorre per nomi­nare ciò che alla cru­dezza e cir­co­la­rità del dive­nire bio­lo­gico e natu­rale si sot­trae, indi­cando una via ascen­dente che l’anima può per­cor­rere per ritro­vare la pro­pria ori­gine cele­ste. Pla­tone è, secondo Weil, «un auten­tico mistico, e addi­rit­tura il padre della mistica occi­den­tale». Insi­stendo sulla neces­sità di ben gover­nare l’anima, al fine di attin­gere alla bel­lezza del Bene – che non sarebbe altro che un altro nome per Dio –, il filo­sofo dice ciò che la tra­di­zione orfica, miste­rica e pita­go­rica ave­vano pro­ba­bil­mente già ela­bo­rato, ma tenuto segreto, e ciò che più tardi, con altri ter­mini e secondo un altro regi­stro, dirà il cri­stia­ne­simo. Il divino è, secondo Weil, tra­scen­denza asso­luta e allo stesso tempo per­fe­zione geo­me­trica che si mani­fe­sta nel mondo attra­verso la pro­por­zione, e che i greci – i pita­go­rici prima ancora di Pla­tone – sco­prono, con stu­pore, nella natura. È la bel­lezza cosmo­lo­gica che per­mette all’anima imper­fetta dell’uomo di entrare in con­tatto con Dio, e quindi è «sin­go­la­ris­simo» che la Gre­cia abbia avuto «una mistica nella quale la con­tem­pla­zione mistica si fon­dava sulle rela­zioni matematiche».

La bel­lezza del divino, la «verità come bene», che agli umani è dato espe­rire, come sostiene Pla­tone nel Sim­po­sio, prima con i sensi e poi con il pen­siero, è l’unico oriz­zonte di sal­vezza sopran­na­tu­rale che per­mette agli uomini di scon­giu­rare la sot­to­mis­sione alla forza e alla vio­lenza. Non si dà però mistica senza con­sa­pe­vo­lezza anche ‘poli­tica’ degli ultimi, della loro sof­fe­renza e sven­tura. Il cir­colo da Omero a Pla­tone si chiude, para­dos­sal­mente, con Cri­sto. L’umanità di cui Omero cele­bra la fini­tezza e la fra­gi­lità, ritorna nelle rifles­sioni misti­che come pos­si­bi­lità di espe­rire l’amore divino solo attra­verso l’amore per l’altro, per il simile, per colui o colei che è uma­na­mente condannato/a alla sven­tura, alla sof­fe­renza, alla morte, ma che resta per noi l’unica misura di una pos­si­bile con­di­vi­sione, di ciò che Weil chiama «amore». Come lei stessa afferma nei Qua­derni, «amare Dio attra­verso la sven­tura altrui è la com­pas­sione del pros­simo» (II, 226): forse pro­prio quel sen­ti­mento lucido di sven­tura che porta a com­pian­gere anche il nemico, che lei vede mira­bil­mente rap­pre­sen­tato nell’epica di Omero, è l’anello che col­lega le intui­zioni «pre-cristiane» con l’amore per gli ultimi che il divino fat­tosi carne, nella figura di Gesù, ha pro­cla­mato senza pudore al mondo.

 

(Alias, 9 Marzo 2014)

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