22 Maggio 2013
il manifesto

Scene pulp di lotta nel declino del patriarcato

di Benedetto Vecchi

L’affresco avvincente di una città preda di strozzini, malavita organizzata e squali della finanza. Alla ricerca della libertà e dell’autonomia. Un gruppo di donne in conflitto con l’altra metà oscura del cielo.

 

Mai far del male a una donna, perché se reagisce, la sua vendetta sarà tremenda. È un «concetto» che ricorre spesso nel noir firmato da Massimo Carlotto e Marco Videtta da poco nelle librerie. Il titolo è programmatico – Le vendicatrici, sottotitolo Ksenia (Einaudi, stile libero, pp. 317, euro 15) – perché è la prima di una serie di quattro romanzi che hanno come protagoniste altrettante donne, violentate o umiliate dall’altra oscura metà del cielo che sono i maschi di questo romanzo. Nessuna di loro, compaiono tutte e quattro in questo primo tassello del puzzle che i due scrittori vogliono costruire, accetta il ruolo di vittime che la società vuole loro cucire addosso. Non è forse un caso che Ksneia sia aperto da una frase tratta dal libro di Luisa Muraro Dio è violent (Nottetempo), uno dei più interessanti saggi sulla crisi del politico interpretata alla luce del declino del patriarcato e dal punto di vista della differenza sessuale. Luisa Muraro sfugge da sempre alla trappola di guardare alle donne come vittime, preferendo sottolineare la ricerca di una libertà femminile che fa dell’autonomia una delle stelle polari dei comportamenti individuali e collettivi delle donne. Quello della filosofa femminista è un saggio che ha fatto molto discutere, perché sostiene che in talune condizioni la forza è una possibilità nelle mani di chi agisce una politica della trasformazione. Nel romanzo di Carlotto e Videtta, la forza è spesso tradotta in uso della forza, e dunque c’è il ricorso alla violenza per contrastare la violenza dei maschi sulle donne.

I protagonisti delle «vendicatrici» sono quindi donne. I maschi sono un groviglio mefitico di passioni tristi e violente. È contro di loro e all’impunità che le convenzioni sociali garantiscono che vale la pena usare la violenza se questo garantisce la possibilità di riprendersi la vita nelle proprie mani. Sia però chiaro, ci sono anche donne dominate da passioni tristi, soltanto che alcune decidono di farla finita con una vita che non è vita e che non è degna di essere vissuta. A differenza dei precedenti romanzi in solitaria di Carlotto e Videtta e di quello scritto a quattro mani (Nordest, edizioni e/o), il teatro dove è messa in scena la storia di Ksenia non è una delle tante città del nord est o della Sardegna, bensì Roma. Una metropoli dove la fanno da padroni usurai, malavita organizzata, palazzinari, squali della finanza e personaggi politici collusi con la criminalità. Un grumo di potere che plasma la vita di uomini e donne risucchiati nel vortice del successo e dell’arricchimento facile. L’imprevisto in questo noir si chiama Ksenia.

Donna siberiana, aspirante atleta caduta in disgrazia, vuole lasciarsi alle spalle lo squallore della sua vita di miseria. Per lei, Roma è una terra promessa a portata di mano, basta che sposi un facoltoso e affascinante uomo di mezza età, nonostante sia consapevole che a lei piacciono le donne. Accetta e si ritrova in un girone dell’inferno. Il promesso sposo è violento, volgare, uno «strozzino» che tiene sotto il suo maleodorante tallone un quartiere intero. Ha rapporti con la camorra, presenza ormai insediata in una città con un sindaco che ha promesso legalità e sicurezza, aprendo invece autostrade alla speculazione edilizia, alle privatizzazioni di quello che è rimasto pubblico a Roma. Prima ci aveva pensato un altro sindaco di uno schieramento virtualmente all’opposto di quello che ha la maggioranza in Campidoglio a iniziare i lavori di demolizione dell’ethos pubblico. Ksenia sarà ridotta in schiavitù, marchiata a sangue da un documento di matrimonio.

Una schiava che comincia da subito a meditare vie di fuga. I personaggi che popolano le pagine del romanzo sono figure familiari per chi vive in una città come Roma. Ci sono i coatti con un passato squadrista alle spalle, il contabile dello strozzino, esempio di una postmoderna banalità del male, vittime che diventano carnefici e viceversa. Infine, una varia umanità che si barcamena tra lavori precari, sogni di mobilità sociale verso l’alto e illegalità diffusa.

Le vendicatrici è un noir che non si fa leggere tutto di un fiato. Appartiene a quei rari esempi dove i colpi di scena, i cambiamenti di ritmo, l’irruzione di nuovi personaggi tolgono quasi il fiato, facendo abbandonare la lettura per riprenderla quando il respiro torna normale. La morte dello strozzino, l’irruzione della sorella, tanto arrogante quanto sadica, la presenza confortante di altre donne che non accettano di essere vittime passive, l’infermiere cubano, comunista non pentito nonostante abbia conosciuto le prigioni de La Havana solo per aver consigliato Fidel di migliorare il sistema sanitario, fiore all’occhiello della rivoluzione nell’isola caraibica. La violenza dei carnefici sale di intensità fino a quando entra in campo Sara, donna che sa come preparare una vendetta. E vendetta sarà, anche se bisogna aspettare gli altri romanzi per capire bene come sarà il mosaico finale delle «vendicatrici».

Questo è un noir dove la politica è sullo sfondo, a testimoniare il ruolo di comprimario che ormai svolge negli assetti di potere. Amministra l’esistente, cioè crea le condizione affinché il grumo tra finanza, rendita e sfruttamento di chi lavora si amalgami bene. È però un romanzo «politico» anche se nessuna delle protagoniste immagina che le decisione di porre fine alla violenza su di loro sia un gesto politico. Prova a spiegarlo l’infermiere, ma sa che può aiutare una strada da seguire: come percorrerla lo decideranno però le donne, perché lui ha fatto il suo tempo.

In passato Carlotto e Videtta hanno offerto mappe del potere esistente, consapevoli che sono cangianti nel tempo e nello spazio. C’è però una costante: l’interdipendenza, se non la fusione tra l’economia legale e quella criminale. Il problema è come rompere questo intreccio, non per tornare alla situazione precedente, ma per dare nuova forma e sostanza a parole dal sapore retrò come dignità, libertà, uguaglianza. Non c’è risposta certa per questo, ma forse per segnare un punto fermo vale un refrain del gruppo rap italiano Assalti frontali: fare movimento per il movimento.

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