di Alessandra Pigliaru
Nella storia del pensiero, e soprattutto in quella della moderna civiltà occidentale, esistono idee controverse di non facile digestione. Alcune, in particolare, sembrano scontare un passato e una stratificazione storico-politica tesa a sovrastarne il significato effettivo. Sembra che all’idea di autorità accadano entrambe le cose, contesa come è da chi ne rigetta completamente il senso e da chi le manifesta una costante diffidenza.
Da molti anni, la riflessione intorno al tema dell’autorità è centrale nel femminismo della differenza italiano di cui Luisa Muraro è figura di spicco. Leggere oggi il suo nuovo libro dal titolo «Autorità» (Rosenberg & Sellier), consente di fare il punto su una questione spinosa e decisiva come quella dell’autorità, per mostrarne la posta in gioco nel presente del dibattito politico. Il libro è un lungo ragionamento, costellato da numerosi riferimenti filosofici, storici, artistici e letterari. Muraro sceglie alcune figure che più di altre forniscono la possibilità di interrogazione intorno all’autorità.
Principi che si inceppano
Dalla figura di Antigone che nel conflitto tra due leggi, sceglie quella più autorevole nominata nel suo ordine simbolico, fino ad arrivare ad Anne Elliot, la protagonista del romanzo Persuasione di Jane Austen, che affronta con grazia la questione del consiglio autorevole. In questo dettato di forza simbolica femminile, a farsi segno dell’autorità sono state le madri di Plaza de Mayo, così come oggi – riempiendo le piazze con i propri simili, contro la sordità e cecità del potere costituito – lo sono quelle di Istanbul. Con lo stesso desiderio di chiarezza, la filosofa segnala alcuni passaggi storici cruciali entro cui rivoltarsi contro il principio di autorità si è reso necessario. Si pensi al lungo cammino che dalla culla del Rinascimento e della Riforma protestante è giunto fino alla Rivoluzione scientifica approdando al movimento studentesco. In questi passaggi, che sono altrettante aperture di modelli politico-culturali, l’intera società è stata travolta e trasformata dal suo interno. In effetti, quando l’incarnazione del principio di autorità non funziona più o cerca connivenze con l’oppressione del potere, è pur vitale rivoltarsi. Cioè l’applicazione di quel principio – quando non è tenuto insieme da un senso riconosciuto di giustizia – si deforma repentinamente in autoritarismo, in dispositivo bieco e scellerato con tutte le conseguenze rapinose nella vita di ognuna e ognuno di noi. Ciò, sostiene Muraro, non significa che l’autorità possa essere bandita dalle faccende umane appunto perché a essa è interna una qualità inconsumabile che si muove tra relazione e riconoscimento e che, se praticata avendo cura della sua forza simbolica, diventa risorsa di accrescimento e felicità tra le persone. Certo se ne deve saper fare un buon uso dopo aver compreso che «L’autorità viene riconosciuta, attribuita, accettata, assunta, nasce cioè in una relazione dove nessuno la possiede di suo» (p. 54).
Così è capitato a Galilei che per tagliare i lacci delle posizioni bibliche e aristoteliche si è appellato al grande libro dell’universo, capace di tradurre in forma rigorosa le sorti della scienza. Per farlo ha avuto bisogno tuttavia di attendibilità, quella di cui la conoscenza della lingua lo aveva dotato. Una cosa è infatti la liberazione dal passato di una tradizione che opprime e schiaccia, altra cosa è la necessità – superato il rifiuto – di una parola che assicuri a sé forza e credibilità. Diversamente da ciò che capitò a Montaigne – che Muraro avvicenda con Kant in capo alla questione legge-giustizia-autorità –, chiudere con il principio di autorità ha significato riconoscere le imperfezione dei legislatori, uomini vani, per aprire ad un’indagine che parta dalla soggettività di ciascuno.
Il meccanismo della devozione
Gli esempi che ci vengono forniti durante la lettura concorrono tutti a rimarcare una questione dirimente che è poi il rilancio del libro: così come autorità e potere sono disgiunti, altrettanto distanti sono l’ordine simbolico e l’ordine sociale. Sulla prima dicotomia è fondata la tesi del libro ma anche la possibilità della scommessa della politica contemporanea: dove compare l’autorità il potere arretra. Potremmo dunque aggiungere che laddove non c’è autorità – intesa come forza simbolica e scambio tra i viventi – quel posto vuoto viene depredato e occupato impunemente dal potere. Anche qui il territorio lambito sembra essere quello tra forza e violenza: dove manca l’autorità, avanza la violenza giacché la relazione tra chi esercita il potere e chi ne è soggiogato non consente un riconoscimento, tantomeno scelta. È piuttosto un obbligo di obbedienza e devozione unilaterale che non concede contraddittorio. Dalla confusione, spesso per niente ingenua, di autorità e potere nasce la sopraffazione. Nel meccanismo del potere, che muta in coercizione, si è dinanzi ad una sottomissione e ad un’oppressione dettate da una gerarchia dei rapporti di forza. Tale gerarchia insieme ai rapporti di subalternità prende il posto della mancanza di autorità comportando lo sfascio al quale oggi assistiamo. In questa traiettoria, si mescolano un po’ le carte facendo finta che non esista altro modo se non il proprio di impadronirsi del consenso. C’è un vuoto dunque – in questo momento fulgidamente rappresentato dalla politica istituzionale – che cerca di assumere su di sé autorità per farne scempio, pensando forse che nessuno se ne accorga.
Ecco che la proposta politica del libro di Luisa Muraro sta a questa altezza: fare dell’esperienza dell’autorità un modo dello scambio che apra alla discussione critica e comporti un orientamento di senso. Una corrispondenza che eventualmente possa renderci anche un po’ felici. In fondo è la stessa interlocuzione richiesta alla lettrice e al lettore quando, nella seconda parte del libro, viene chiesto di continuare a scrivere quelle pagine bianche. Si deve sempre domandare la restituzione di quel riconoscimento di autorità, perché la promessa non può essere fatta una volta per tutte. È un rischio evidente ma è questa la scommessa in un presente così poco credibile: mettersi in gioco con la forza radicale di una soggettività che intenda le relazioni tra donne, e quelle tra donne e uomini, come il centro della politica.
Dal lavoro alla cura
Sull’efficacia politica della pratica e dei saperi femministi che guardano al presente, si apre «C’è una bella differenza» (et al./ Edizioni). Fitta e importante conversazione tra Luisa Cavaliere e Lia Cigarini, il volumetto offre molteplici sollecitazioni riguardo temi e problemi cruciali al centro del dibattito politico contemporaneo. In particolare, il nucleo portante è rappresentato dalla discussione dell’esperienza di Paestum, l’incontro nazionale avvenuto lo scorso ottobre che ha visto la partecipazione di quasi mille donne. Cavaliere e Cigarini, entrambe promotrici e firmatarie – insieme a Lea Melandri e ad altre femministe italiane – della lettera d’invito, percorrono le ragioni che hanno fatto di quell’incontro una posta di radicalità politica. Più desiderato come un grande gruppo di autocoscienza, la tre giorni ha consentito di mettere in circolo numerose e diverse pratiche politiche. I temi discussi sono altrettante questioni aperte sul tavolo del confronto tra generazioni politiche che riguardano tutte e tutti: dall’economia, quindi il lavoro e la cura, fino allo statuto stesso della democrazia, insieme all’idea di rappresentanza-autorappresentazione, passando per il nodo della violenza. Cigarini, pungolata dalle domande di Cavaliere, mostra quali e quante parole siano state messe in circolo, a ben guardare sono le stesse che la politica delle donne ha trasmesso e su cui ha riflettuto in questi quarant’anni, attraverso associazioni, librerie e tutte quelle realtà che hanno lavorato con convinzione e tenacia. Una sfida femminista dunque che si è intesa – e si intende – capace di affrontare la crisi politica dell’ordine maschile, rilanciando la forza e la consapevolezza del femminismo. La questione del lavoro è stata molto presente a Paestum così come viene ulteriormente discussa anche nel libro con i riferimenti all’Agorà milanese, un luogo pensante fondato da Lia Cigarini e da altre che riflette sul lavoro riunendo donne e uomini intorno alle teorie e alle pratiche sul tema. Anche a Paestum il lavoro è stato centrale, nominato, sessuato nelle narrazioni della precarietà e sottoprecarietà, che si sono confrontate a partire da sé, riflettendo sulla materialità delle singole esistenze.
Verso la tuffatrice
Certamente l’altra questione aperta appare quella della rappresentanza, così come il conflitto e il tentativo di confronto tra politica prima e seconda. Nessuna parola definitiva è stata detta tuttavia e neppure la si attendeva. Se il femminismo italiano è infatti da sempre la spinta propulsiva della riflessione politica che metta al centro la libertà femminile e la sapienza delle pratiche di relazione, appare chiaro come Paestum abbia rafforzato e confermato la capacità e il potente confronto di soggettività politiche. Secondo Cigarini «La crisi merita un pensiero efficace. Primum vivere mette al centro e indica come imprescindibile la materiale irruzione della soggettività, delle storie e delle vite (…) Primum vivere. La mia proposta dunque è di dire e ribadire pubblicamente quello che sappiamo su come vogliamo vivere e sul lavoro necessario per vivere, a partire dalla critica della evidente unilateralità dell’economia maschile, sia di quella dominante che di quella di opposizione. Con la consapevolezza che quello che si dice e si agisce ha un valore universale: vale non solo per noi, non solo per le donne» (pp. 27, 28).
Le parole di Eleonora Forenza, ricordate da Cigarini, «siamo tutte femministe storiche», inchiodano alla responsabilità le diverse generazioni che attraversano le ragioni strettamente anagrafiche per dirsi anzitutto politiche – a Paestum come nell’intera cartografia italiana dei femminismi. Sono tuttavia le osservazioni di Maria Giovanna Piano – anche queste citate da Cigarini – ad apparire dirimenti per la forza di Paestum 2012, quella rappresentata dalla tuffatrice (versione che riprende l’immagine del tuffatore ritratto in una pietra tombale esposta nel Museo Archeologico di Paestum). Di quella immagine, Piano segnala la movenza del tuffo declinato dalle parole delle donne come «azzardo, radicalità; la direzione è il cuore di una realtà disorientata che oggi più che mai chiede soggettività politica per una decifrazione “altra”, per un “altro” passaggio». È davanti a quella distesa d’acqua, che è poi il movimento stesso del presente della politica declinato al futuro, che la soggettività imprevista del femminismo mostra la propria dirompenza. In quel tuffo, che inaugura ancora una volta – come fosse la prima – una separazione da quel che resta del patriarcato. Bisognerebbe pensarci e discuterne ancora, perché il potere è altra cosa non solo rispetto all’autorità ma anche rispetto alla libertà. O almeno: c’è una bella differenza.
(il manifesto, 27 giugno 2013)