di Clara Jourdan
Sono d’accordo con la posizione espressa dalla Segreteria nazionale ArciLesbica sulla “gestazione per altri” (Gpa, detta anche “maternità surrogata”, una modalità di procreazione medicalmente assistita per cui una donna porta a compimento una gravidanza con l’esplicita intenzione di non tenere la creatura al fine di darla a coppie/persone che ne hanno fatto richiesta): perché sia una scelta libera, «è necessaria la gratuità, anche economica, del gesto» (Utero in affitto, la parola alle donne, “il manifesto”, 4 novembre 2015). È importante, quando si parla del tema, fare la distinzione tra la maternità gratuita e quella dietro compenso. Io propongo che questa distinzione venga fatta innanzitutto nel linguaggio. L’espressione corrente “utero in affitto” (una figurazione metonimico-metaforica simile a quella dell’“affitto delle braccia” in agricoltura) può essere efficace per stigmatizzare la commercializzazione della maternità, che rende il corpo femminile una merce, ma è assolutamente fuorviante per intendere la maternità «per aiutare un’altra donna». «Per aiutare un’altra donna» sono parole che ascoltai in un’intervista pubblicata da un quotidiano molti anni fa, parole che da allora orientano il mio sguardo sulla questione. Sono parole molto precise, che ricordano l’atteggiamento delle madri affidatarie che si prendono cura temporaneamente di figli e figlie di altre donne meno fortunate. Infatti, alla domanda della giornalista se non sarebbe stata tentata di tenersi la creatura, l’intervistata rispose di no, «perché è il figlio di un’altra donna che porto dentro di me». Naturalmente può poi succedere qualcosa che faccia cambiare idea, come capita nella vita, ma è una eventualità che, se non può essere esorcizzata con uno pseudocontratto (che comunque non servirebbe, perché i contratti si rompono, e spesso), può essere invece tenuta presente in una relazione di fiducia, di fiducia in una donna che si mette in gioco nella sua interezza per uno scopo grande.
Come nominare questa realtà con un linguaggio che restituisca il senso di tutto ciò? Tra le espressioni che ho sentito finora, “maternità solidale” mi sembra la più vicina a quell’esperienza femminile e alle parole usate per dirla.
Nota. A questa tematica è dedicato il n. 49 di Via Dogana, maggio 2000, dal titolo Generare non generare.
(www.libreriadelledonne.it, 13 novembre 2015)