21 Aprile 2017
Elle

Sì, dalla violenza ci si può salvare

di Cristina Obber

L’idea che ci facciamo guardando la tivù è che se denunciamo ci mettiamo in pericolo. Non è così: tante donne con l’aiuto di centri appositi sono uscite dal loro incubo. E hanno ricominciato.

Di fronte ai femminicidi ci spaventa l’idea che molte vittime avessero denunciato violenze e minacce.
Negli ultime settimane ha fatto parlare il caso siciliano di Lidia Vivoli, sopravvissuta ad un tentativo di femminicidio da parte del suo ex convivente che sta per uscire dal carcere: lei ora vive nel terrore di morire da qui a poco poiché lui l’aveva minacciata di vendicarsi.
Partecipando in collegamento ad una delle trasmissioni che l’hanno ospitata per raccontare la sua storia ho avuto la netta sensazione che al pubblico a casa il messaggio che arrivasse prepotentemente fosse Se denunciate vi mettete in pericolo.
Ricordo che durante un incontro sulla violenza di genere in una scuola superiore una ragazza mi disse che di fronte a un fidanzato possessivo e ossessivo l’unica strada è «cercare di deluderlo e farsi lasciare, perché lo Stato non c’è, nessuno ti difende».
Mi parse allora come mi pare adesso inaccettabile che una ragazza di 17 anni si rassegni al vuoto istituzionale e al fai-da-te.
Il messaggio che ci arriva dai media è che la denuncia ci metta in pericolo scatenando nell’uomo violento il gesto estremo.
Ma è proprio così? E come salvarsi?

UN LUOGO DI LIBERTÀ
Mi dice Titti Carrano, presidente della rete D.i.Re dei centri antiviolenza: «I casi di femminicidio di cui leggiamo riguardano donne che non si erano rivolte ai centri antiviolenza, e questo è un elemento che ci dice quanto il coordinamento tra forze dell’ordine, servizi sociali e centri sia fondamentale».
Nel riconoscimento della violenza e nella valutazione del rischio il centro antiviolenza ha infatti un ruolo specifico e basilare, ma è importante sottolineare che è anche un luogo che accoglie, senza giudicare.
«È innanzitutto è un luogo di libertà dove le donne riprendono in mano la propria vita, con le difficoltà che ci sono e vanno riconosciute. Noi vediamo le donne ogni giorno, 365 giorni l’anno, ci portano il loro vissuto drammatico e noi ci poniamo nei loro confronti in una relazione alla pari; il nostro non è un approccio diagnostico, sappiamo bene che la violenza maschile contro le donne ha una radice patriarcale e non ha nulla a che vedere con la malattia».
Sono tantissime le donne che ce la fanno e che riescono a ricostruirsi una vita insieme ai propri figli: «La violenza non è un destino e gli uomini, se si agisce con competenza, si fanno da parte», chiarisce la presidente di D.iRe.
Nell’immaginario comune il centro antiviolenza è un luogo dove rivolgersi unicamente quando vi sono gravi problemi di violenza fisica, mentre le operatrici sono preparate ad accogliere tutte le forme di violenza, quella psicologica, economica, sessuale e lo stalking. È luogo comune pensare che subiscano violenza donne deboli o poco istruite e che una donna forte e determinata non abbia bisogno di aiuto. Non è così: la violenza è trasversale e ci coinvolge tutte, e spesso è proprio la forza femminile che destabilizza uomini incapaci di stare in relazioni paritarie.

LE STORIE INVISIBILI, FATICOSE MA CON UN LIETO FINE
È bene ricordare che ci sono anche le storie finite bene. Se penso a quelle che in questi anni ho incontrato personalmente in vari luoghi d’Italia si sono risolte tutte positivamente. Come quella di Sara, 45 anni, italiana con un marito italiano ossessionato dal controllo. Lei aveva un ottimo stipendio ma non poteva scegliere autonomamente nemmeno di comprarsi un vestito, doveva consegnargli anche gli scontrini della spesa. Sara aveva subito violenze fisiche in un paio di occasioni e si era rivolta a un centro antiviolenza per capire come comportarsi nel chiedere la separazione, sapendo che lui non l’avrebbe accettata e temendo per l’equilibrio dei tre figli. Grazie al coordinamento tra centro antiviolenza, servizi sociali e forze dell’ordine questa donna era riuscita ad ottenere la separazione. Il marito, messo al corrente dalle forze dell’ordine delle conseguenze dello stalking aveva compreso la situazione e accettato la scelta di Sara di trasferirsi in un’altra città dove aveva dei parenti, mantenendo una buona relazione con i propri figli. Nella seconda città aveva proseguito il suo percorso con un nuovo centro antiviolenza per circa due anni, garantendo a se stessa e ai suoi figli il mantenimento di una situazione equilibrata e serena.

Penso ad Asha, 19 anni, indiana, che dopo l’esame di maturità aveva all’orizzonte un matrimonio combinato dalla famiglia e come alternativa al suo rifiuto un viaggio in India probabilmente senza ritorno. Non avendo mai subito violenze fisiche ed essendo maggiorenne si era sentita rispondere dai servizi sociali che nessuno avrebbe potuto intervenire per aiutarla ma grazie al consiglio di una prof si era rivolta ad un centro antiviolenza e a distanza di sei mesi aveva un lavoro part-time e una casa che divideva con altre due ragazze in una Capitale europea.

Penso a Sofia, 27 anni, albanese, con un convivente italiano che la teneva quasi segregata in casa insieme al loro bambino di quattro anni. Poteva uscire solo per andare e tornare dalla scuola materna, della spesa si occupava lui. Era molto bella Sofia e non poteva nemmeno affacciarsi alla finestra perché lui era ossessionato dalla gelosia che altri uomini potessero suscitare il suo interesse. Si era presentata al centro antiviolenza con 30 euro in tasca messi da parte in qualche mese; era di ritorno alla scuola materna. Sofia e il piccolo erano stati trasferiti in una casa rifugio, in un luogo segreto anche alle forze dell’ordine.
Certo, non era stato facile ricominciare tutto da capo, ma a distanza di tre anni Sofia lavorava e manteneva il suo piccolo in un piccolo appartamento in affitto e quell’uomo aveva smesso di cercarli.

Penso a Erika, 35 anni, italiana con un marito italiano, succube da otto anni del controllo del compagno e della suocera che aveva le chiavi del suo appartamento e vi entrava ed usciva quando voleva perché Erika non era abbastanza brava a stirare, a cucinare, ad accudire un compagno che tanto ringraziava la madre di essere invece perfetta e di abitare al piano di sotto. Qualche schiaffo tra i due, quando Erika alzava la testa durante i litigi in una coppia dove lei dipendeva economicamente da lui lavorando senza contratto (con una laurea in Legge in tasca) nella piccola azienda di famiglia fondata dal suocero. Al centro antiviolenza Erika si era rivolta per cercare di capire, senza mai nominare la parola violenza, come imporre il proprio desiderio di staccarsi dall’invadenza della suocera senza far perdere il controllo a un marito che quando si infuriava le diceva «se dici ancora una parola ti disfo». Il dubbio di subire violenza lei ce l’aveva, ma non riusciva a nominarlo, attribuendo al marito un carattere particolare e concentrando la responsabilità su quella suocera onnipresente. Nel percorso intrapreso Erika aveva imparato a dare un nome alle cose, aveva messo insieme i tasselli di un rapporto in cui la violenza era ovunque, anche nel dover accudire due cani che lui aveva portato a casa senza prima consultarla, anche in una vita sessuale vissuta per lo più con l’obiettivo di soddisfare lui e rinunciare al proprio piacere se lui raggiungeva l’orgasmo in troppo poco tempo. Oggi ha un altro uomo a fianco che ogni giorno le dimostra la differenza tra amare e possedere, lavora in uno studio legale e sta pensando di diventare mamma.

A 17 ANNI COME A 50
Ci tengo a sottolineare che la violenza non riguarda dei mostri e delle sprovvedute, ma uomini che ritengono normale esercitare un controllo sulla partner e donne che confondono inizialmente quel controllo con attenzione.
Sono infatti spesso meravigliosi, prototipi del principe azzurro che ci ricopre di fiori e carinerie quegli stessi uomini che si trasformano lentamente in carnefici e noi donne per prime ne sottovalutiamo i comportamenti, a partire dalla violenza psicologica che si manifesta con alcuni elementi inequivocabili quali lo svilimento delle nostre qualità, l’umiliazione e un lento isolamento dalle altre nostre relazioni amicali e familiari. Un uomo non si improvvisa violento, prima delle violenze fisiche ci sono sempre quelle psicologiche che tendono a manipolarci e limitare la nostra libertà.
È importante sapere che al centro antiviolenza -come al numero 1522 – ci si può rivolgere anche nel dubbio di subire violenza, proprio perché all’interno di una relazione sentimentale non sempre è facile distinguere il confine tra amore e non-amore e più si è coinvolte nei sentimenti più si tende a giustificare quei comportamenti del partner che feriscono o gli eccessi di gelosia che opprimono.
La violenza non è «troppo amore», la violenza è controllo, è esercizio di potere.
E la solitudine è l’ambito in cui la violenza si rafforza. Rivolgersi al centro antiviolenza ben prima di arrivare alla violenza efferata può salvarci la vita. L’operatrice ci aiuta a comprendere anche i nostri stati d’animo, le nostre paure. Ci aiuta a conoscerne i meccanismi permettendoci di non sottovalutare i comportamenti e i segnali – una frase, una scenata, uno schiaffo – decodificandoli ed evitandoci di prendere coscienza della situazione solo a distanza di anni.
E in caso di pericolo attiva la rete intorno a noi al fine di proteggere la nostra incolumità e il nostro diritto di uscire definitivamente da una relazione, salvaguardando anche il benessere dei figli ove ci siano.
Un altra grande competenza che hanno le operatrici dei centri è infatti la valutazione della violenza assistita dai bambini, elemento spesso sottovalutato o addirittura sconosciuto in altri ambiti di intervento.

LA TRAPPOLA DELL’ULTIMO APPUNTAMENTO
Una raccomandazione che ci arriva dai centri antiviolenza è quella di non fidarsi del cosiddetto ultimo appuntamento, quello chiarificatore, quello per rimanere amici.
È infatti durante questo ultimo incontro che molte donne o ragazze sono state uccise, anche nel caso di Lidia Vivoli (che invece è viva) è stato così: l’aveva lasciato, si erano rivisti in una giornata in cui lui era stato meraviglioso e le aveva chiesto di fermarsi a dormire da lei, per un’ultima volta. Si erano addormentati abbracciati, come due persone che chiudono definitivamente una relazione con tenerezza.
Poi quell’uomo affettuoso ha cercato di ucciderla massacrandola con una padella e delle forbici, e per tre lunghissime ore Lidia, sequestrata e gravemente ferita, ha contrattato la propria sopravvivenza.
Il raptus non esiste, esiste la premeditazione lucida e spietata di chi ci attrae in una trappola rassicurandoci con atteggiamenti concilianti e amichevoli.
Un uomo possessivo che si rivela nuovamente dolce e conciliante, talvolta supplichevole, non deve tranquillizzarci, e qui non si tratta di essere più o meno ingenue, si tratta di essere informate del fatto che anche ragazzi e uomini dal carattere mite e gentile possono trasformarsi in assassini quando il loro maschilismo ha il sopravvento e il maschilismo in questo Paese investe ogni relazione, ogni persona. Se si desidera accettare un invito, per evitare altre insistenze o per scongiurare azioni più violente pensando di poter controllare la situazione, è bene presentarsi all’incontro con familiari o amici, possibilmente più di uno, mai da sole.

Per conoscere il centro antiviolenza qualificato nel proprio territorio si può accedere al sito D.i.Re o al sito Telefono Rosa o rivolgersi al numero antiviolenza 1522. Va ricordato che caratteristica dei centri è la garanzia dell’anonimato.

(Elle, 19 aprile 2017)

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