di Alberto Leiss
Nel Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, il capolavoro scritto a Londra poco prima di morire mentre infuriava la seconda guerra mondiale – tradotto in Italia da Franco Fortini con il titolo La prima radice (L’enracinement) – Simone Weil scrive, com’è noto, una definizione demolitrice del marxismo. Un «miscuglio di idee confuse e più o meno false», al quale «da Marx in poi, hanno contribuito quasi esclusivamente mediocri intellettuali borghesi». Qualcosa di «inassimilabile» e inutilizzabile dagli operai ai quali pure sarebbe rivolto, in quanto «spoglio di ogni valore nutritivo, perché è stato svuotato di quasi tutta la verità contenuta negli scritti di Marx».
È evidente la distinzione tra Marx e il marxismo, cioè soprattutto le declinazioni ideologiche, e anche dogmatiche del suo pensiero che la Weil aveva di fronte nei partiti comunisti e socialisti europei e nel regime stalinista in Urss. E tuttavia la sua analisi fu spietata anche nei confronti delle teorie dell’autore del Capitale.
Una rivisitazione del profondo e complesso rapporto tra Simone Weil e Karl Marx è ora più agevole grazie alle nuove traduzioni in italiano nel libro Oppressione e libertà (edizioni Orthotes, introduzione di Lia Cigarini e Luisa Muraro, pp. 218, euro 18), che riprende il francese Oppression et liberté, pubblicato da Gallimard nel 1955. Vi si possono leggere non solo il famoso saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, ma numerosi articoli, appunti, abbozzi e frammenti, scritti tra il 1933 e il ’43, ultimo anno di vita della Weil, diversi dei quali introvabili da decenni, fino al testo incompiuto Esiste davvero una dottrina marxista? che potrebbe essere il suo ultimo saggio.
Una vicenda del secolo breve
Questi scritti, legati dal filo rosso di un dialogo costante con Marx, sono introdotti da Lia Cigarini e Luisa Muraro, della Libreria delle donne di Milano, esponenti di un femminismo che fin dalle sue origini riattualizza l’opera e la vita di Simone Weil (il titolo del libro che ne racconta la storia e le pratiche politiche, Non credere di avere dei diritti, è una citazione della Weil). Perché questi testi che giungono dalla fase più buia e tragica del secolo scorso ci parlano ancora, e con grande intensità?
Perché – rispondono Cigarini e Muraro – il «secolo breve» aperto dal 1914 in realtà è assai lungo: «non un solo capitolo della storia del ventesimo secolo può ancora considerarsi risolto». Né il perché della grande guerra che ne generò una seconda, con l’aggressività di un colonialismo di cui si scontano ancora oggi gli effetti con l’incombere di una «terza guerra mondiale a pezzetti», né la effettiva capacità «autoregolativa» del mercato capitalistico, né l’esito delle trasformazioni prodotte dalla rivoluzione delle donne. In definitiva resta in questione il destino della grande speranza di liberazione che ha percorso a ondate il mondo.
Il dialogo di Simone Weil con Marx va alla radice di molti di questi interrogativi. Ne legge gli scritti e Il Capitale da adolescente. E subito – scriverà molto più tardi – «alcune lacune e contraddizioni di prima importanza mi saltarono agli occhi». Pensava, quell’adolescente, che certamente «tanti grandi spiriti che avevano aderito al marxismo» le dovevano aver viste e colmate. Ma non era così. A cominciare da quella per lei più vistosa, la contraddizione «evidente, eclatante, tra il metodo d’analisi di Marx e le sue conclusioni. E non c’è da meravigliarsi: egli, infatti, ha elaborato le conclusioni prima del metodo. La pretesa del marxismo di essere una scienza è quindi del tutto bizzarra». Ma ciò nonostante Simone è irresistibilmente attratta, è come ipnotizzata dal pensiero e dalla scrittura di Marx. Una immagine descritta nella biografia di Simone Pétrement (La vita di Simone Weil, Adelphi): la Weil, insegnante di filosofia, che durante la ricreazione tra una lezione e l’altra è notata da un ispettore scolastico seduta in aula, china a leggere Marx. «Aveva il volto pieno di macchie di inchiostro. Quando le allieve rientrarono in classe, si sforzarono di far bella figura davanti all’ispettore per cancellare l’impressione sgradevole che poteva aver prodotto l’aspetto della loro insegnante». Che ammiravano intensamente.
Un cuore generoso
Simone stava lavorando alla Riflessione sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, si distaccava dai compagni sindacalisti rivoluzionari, e già meditava di lasciare la scuola per provare il lavoro in fabbrica (1934–1935).
Che cosa l’attraeva dell’opera di Marx? La scoperta geniale di un nuovo metodo per l’analisi della società, con il ruolo fondamentale dei rapporti di forza. E forse ancor più la spinta etica – così simile alla sua – e l’indignazione per le sofferenze subite dagli operai. Il suo – scrive nell’ultimo saggio incompiuto che nega l’esistenza di una «dottrina marxista» – era un «cuore generoso. Lo spettacolo dell’ingiustizia lo faceva soffrire realmente, si può anzi dire carnalmente soffrire». Una sofferenza che probabilmente gli avrebbe impedito di vivere, se non avesse potuto credere in un futuro di liberazione. Ecco il motore di quella teoria – che pretende di essere scientifica ma è indimostrabile – secondo la quale il proletariato avrebbe liberato l’umanità intera.
Ma Marx – ripete in tanti passaggi la Weil – aveva anche saputo vedere l’origine dell’oppressione in quelle «funzioni» del governo dello stato e della produzione – apparati repressivi e burocratici, organizzazione di fabbrica, divisione tra lavoro manuale e intellettuale – che, dirà più lucidamente Weil, non sono legate direttamente alla proprietà. E che infatti si sono tragicamente riprodotte nello stato che aveva abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione. Uno stato – litigherà a viso aperto con Trotzky – che quindi non poteva più definirsi «operaio».
Perché – come sottolineano Cigarini e Muraro – la vicinanza anche fisica e affettiva della Weil con gli operai, con gli oppressi, rovescia la soggettivazione collettivistica, «di classe», del marxismo e delle sue vulgate: «noi vogliamo fare dell’individuo, e non della collettività, il valore supremo», scrive Weil nell’articolo Prospettive (1933). Per cui «la subordinazione della società all’individuo, ecco la definizione della vera democrazia e anche quella del socialismo».
Ci sarà, nel ’38, la svolta religiosa: l’insanabile contraddizione tra la necessità che costringe gli uomini, e il bene che gli uomini desiderano ma non sanno riconoscere, colloca l’origine del bene nel «soprannaturale». Per Cigarini e Muraro ci può essere una risposta politica diversa: il potere simbolico della parola può cambiare i rapporti di forza «in relazioni in cui scorra un filo di libertà». Simone comunque non interruppe mai il confronto con Marx: tra le sue carte forse l’ultimissimo appunto recita «Se Marx avesse saputo… Angoscia; Marx e Platone». Del resto aveva indicato, anni prima, i rari uomini che cercano di conoscere il «bene assoluto»: «spiriti di diversissimo valore, quali Platone, Pascal e, per quanto possa sembrare strano, Marx».
(il manifesto, 26 novembre 2015)