11 Giugno 2016
il manifesto

Smantellare secoli di violenza

di Maria Grosso

Donne. “Violenza invisibile. Abusi culturali e fisici sulle donne” di Silvia Lelli, un film che mostra come un’antica soprafaffazione abbia preparato l’insopportabile scenario che ci troviamo a vivere

Prima di parlare ancora di violenza di genere. Forse abbiamo bisogno di sottrarci a un tempo in apparenza inseguito solo da rintocchi funerei, forse necessitiamo di una pausa di meditazione profonda, di una stanza di pensieri e visioni altre. Per chiederci in che punto siamo sulla «mappa», cosa sia stato realmente sceverato, compreso e agito in questi anni, e cosa resti ancora da capire da fare. E innanzitutto per interrogarci su quale sia veramente l’oggetto del nostro dire. In questo, dirimente e necessario, può essere un film, un lavoro che mi ha fatto compagnia e mi ha dato speranza dal dicembre scorso, quando ho incontrato per la prima volta la sua autrice. Mi riferisco a Violenza invisibile Abusi culturali e fisici sulle donne di Silvia Lelli, che il festival Cinema e Donne ha scelto in sua rappresentanza per la rassegna estiva con le opere più significative dell’autunnale 50 giorni di cinema a Firenze. L’oggetto del discorso, dunque. Ovvero se sia possibile separarlo dalla nostra riflessione sulla filosofia – visioni del mondo e linguaggio atavicamente forgiati su un certo maschile, la Storia il sociale l’educazione, idem, la politica l’economia le leggi – secoli di cultura patriarcale e suoi retaggi – la psicoanalisi, la religione (uno dei pochi aspetti non presenti direttamente nel film, ma penso all’ultimo lavoro di Giuliana Sgrena), la rappresentazione, la narrazione mediatica della mente e del corpo delle donne, e degli uomini. E allora di cosa stiamo parlando? E soprattutto come? Prendendo su di sé la responsabilità di una semina amplissima di angolature e domande, come fossero tanti film in uno, con competenza e rigore (Lelli parla da un tracciato di antropologa, docente universitaria e filmmaker), Violenza invisibile mostra l’inadeguatezza di qualunque discorso prescinda da una prospettiva sistemica che contempli la società nel suo complesso – osservate l’immagine iniziale e quella finale, con le ombre umane riflesse in una pozzanghera inondata dal sole – spostando l’attenzione, di solito quasi esclusivamente focalizzata sui picchi mortiferi di violenza manifesta, verso le pressoché infinite microparticelle di violenza psicologica, morale, impalpabile – e dunque tanto più difficile da dimostrare – sul sostrato di svalutazione discriminazione negazione di genere in cui siamo immerse/i. Violenza invisibile come l’aria che respiriamo.
Dunque innanzitutto il documentario spinge a chiedersi perché la società tenda a percepire questo processo così pervasivo soltanto in casi in cui si giunge alla violenza irreversibile. Certo, una consistente parte di responsabilità deriva da quella che chiamo «a mala narrazione», in letteratura la «vittimizzazione secondaria», o secondo un’espressione usata nel film da Marisa Guarneri della Casa delle Donne Maltrattate di Milano, iniziatrice, nel 1988, della storia dell’antiviolenza in Italia, «le viscere sul tavolo», ossia l’ulteriore inenarrabile violazione che una donna che ha conosciuto la violenza di genere ultima, subisce attraverso il racconto mediatico che, in un teatro collettivo sadico, si dà di lei, approfittando della sua impossibilità a narrarsi in prima persona. Ma cos’altro adombra questo volersi soffermare quasi esclusivamente sulla violenza eclatante e definitiva, questo clima di «emergenza», questa sottovalutazione della violenza invisibile? Non impedisce forse di comprendere più analiticamente, di guardare a monte, alla molteplicità delle cause, e in particolare alla capillarità collettiva delle responsabilità? Di questa complessità lucida va in cerca il documentario, attraverso una struttura straordinariamente ricca di motivi e loro infinite interrelazioni (raccolti in quattro macroaree: pensieri comuni, le donne, gli uomini, pratiche e politiche), una architettura intellettuale ed emotiva – ricomponibile ad libitum da chi guarda – che Lelli, a testimonianza della perfettibilità sempre in divenire della consapevolezza, continua a immaginare aperta a essere trasformata. Pure in questa fluidità, ci sono capisaldi inamovibili, ed è fondamentale per esempio che il film ritorni insistentemente sulla questione ancora purtroppo ricorrente del perché non si lasci il partner, del perché non si denunci (un nodo che ancora crea barriere tra le donne stesse). Difficile dopo aver visto questo film, non averne almeno una idea … attraverso i racconti in prima persona di donne che hanno attraversato la violenza e che per mille sovrumane peripezie e recupero di contatto con il proprio valore inviolabile, ne sono venute fuori.

Parliamo dunque di un «nemico» che irrompe vicinissimo interno, nella psiche e nella vita di una donna, nella sua «casa», e che, come tale, è difficilissimo da percepire, nonché, specie nei casi di legame con figli, da lasciare (in tema di confini intimi violati, un lungo capitolo del documentario è dedicato alla violenza sessuale subita da una figlia dal proprio padre, al percorso, anche cinematograficamente gigantesco, compiuto da questa donna). Su questo, su un rapporto percepito inizialmente come d’amore, comincia a insinuarsi sempre più stringente una alternanza «di luna di miele» e violenza, «una prigione culturale mentale e psicologica», che genera dipendenza e assuefazione, un «recinto identitario», una progressiva sottrazione di libertà, di autostima, che affonda le sue radici in «un rapporto di potere inquietante e particolarissimo avviluppato alle vicende più intime come la sessualità e la maternità», dove il senso di inermità e di dipendenza provato nei confronti del corpo materno dal bambino alla nascita, si trasformano, per l’uomo, nella palude del possesso e della distruzione di quel corpo, in primis psichico (uno dei cuori propulsivi di Violenza invisibile è il «reportage» dal CAM, Centro Uomini Maltrattanti di Firenze, la testimonianza diretta di uomo e il suo percorso di consapevolezza «disarmata» di sé). Per non dire della paura – l’indicatore per capire si tratta di violenza – della vergogna, dell’isolamento prodotto anche dalla connivenza di gran parte della società, che gli ultimi casi assurti all’«onore» della cronaca hanno ulteriormente testimoniato, per non dire delle violenze economiche prodotte sulle donne dal sistema, di quella che è tutt’ora la cecità parziale delle istituzioni, dei fondi sottratti ai centri. E le motivazioni non finiscono qui … Così come la ricchezza immane del film, la cui visione considero auspicabile a tutte/i dall’adolescenza in poi, a qualunque latitudine. (Non volendo far tolto ad alcuna, troverete nel documentario i nomi di tutte le donne che si sono autonarrate e/o delle operatrici antiviolenza e relative associazioni e/o delle studiose femministe, i cui contributi sono stati talvolta sopra citati). Dopo 16 anni di lavoro su questo che non considero «un tema», ma la nostra stessa vita, a quasi 10 anni da quel 2007 in cui uscirono i primi (!) dati ISTAT sulla violenza di genere, quando proposi i primi lavori a questo giornale (nell’indifferenza di altri giornali), vedendo questo film, e come sgretoli il concetto machiavellicamente costruito di «vittima», guardando i volti delle ragazze all’università, che acutamente fioriscono nell’incipit, e quelli degli uomini del CAM, che guardano un video dove le donne raccontano le violenze subite, percependo la voglia di capire delle ragazzine, l’accenno di «finzione» che affianca empaticamente la fuga di una madre e di una figlia adolescente, la targa di un centro antiviolenza, uno dei modi con cui un’altra madre onora davvero la memoria della sua ragazza uccisa, sento possiamo specchiarci in questa forza immane del viaggio compiuto e da fare. Spirituale corporeo interiore incancellabile inviolabile.

 

(il manifesto, 11 giugno 2016)

Print Friendly, PDF & Email