di Julia Kristeva
DIRITTI dell’uomo o diritti del cittadino? Questa discordanza, di cui Hannah Arendt ha tracciato la genealogia, ma anche la degenerazione (la degenerazione che ha dato luogo al totalitarismo), compare con evidenza quando le società moderne affrontano il “ problema degli stranieri ”. La difficoltà che genera questa questione sarebbe racchiusa interamente nel vicolo cieco della distinzione che separa uomo e cittadino: non è forse vero che per stabilire i diritti che spettano agli uomini di una civiltà o di una nazione, anche la più ragionevole e la più consapevolmente democratica, si è obbligati a escludere da tali diritti i non cittadini, ovvero altri uomini?
Questo modo di procedere significa – è la sua estrema conseguenza – che si può essere più o meno uomini a seconda che si sia più o meno cittadini, significa che chi non è cittadino non è interamente un uomo. Fra l’uomo e il cittadino, una cicatrice: lo straniero. È interamente un uomo se non è cittadino? Non godendo dei diritti di cittadinanza, possiede i suoi diritti d’uomo? Se, consapevolmente, accordiamo agli stranieri tutti i diritti degli uomini, che cosa ne resta in concreto quando togliamo loro i diritti del cittadino?
Nella situazione attuale di mescolanza senza precedenti di stranieri sul pianeta, due soluzioni estreme si profilano: o si andrà verso degli Stati Uniti mondiali di tutti i vecchi Stati- nazione (processo immaginabile nel lungo periodo e che lo sviluppo economico, scientifico, mediatico lascia presumere), oppure il cosmopolitismo umanista si rivelerà un’utopia, e le aspirazioni particolaristiche imporranno la convinzione che i piccoli insiemi politici sono le strutture ottimali per la sopravvivenza dell’umanità. Nella prima ipotesi, la cittadinanza è chiamata a integrarsi il più possibile nei diritti dell’uomo e a dissolversi in essi, perché assimilando gli ex stranieri i cittadini nazionali perderebbero necessariamente molti dei caratteri e dei privilegi che li definiscono in quanto tali. Altre differenze si formerebbero, probabilmente, dando luogo al caleidoscopio multinazionale degli Stati Uniti mondiali: differenze sessuali, professionali, religiose ecc.
Al contrario, se gli Stati-nazione dovessero sopravvivere ancora a lungo, come la difesa accanita dei loro interessi in questo momento pare indicare, lo squilibrio fra diritti dell’uomo e diritti del cittadino creerebbe degli equilibri più o meno sottili o brutali. Diventerebbe allora necessario creare uno statuto degli stranieri che tuteli dai reciproci abusi, precisando i diritti e i doveri delle due parti. Questo statuto dovrebbe essere provvisorio, evolutivo e adattarsi ai cambiamenti dei bisogni sociali e delle mentalità.
Quali che siano le differenze tra un paese e l’altro, si può generalizzare dicendo che nelle democrazie moderne gli stranieri sono esclusi da un certo numero di diritti. Prendiamo lo spinoso problema dell’esclusione degli stranieri dal diritto di voto. Gli argomenti delle due parti sono ben noti: «Gli stranieri in definitiva restano fedeli al loro paese d’origine e possono nuocere alla nostra indipendenza nazionale», dicono gli uni. «Gli stranieri costruiscono insieme a noi la nostra indipendenza economica, e pertanto devono godere dei diritti politici che conferiscono il potere di decisione», replicano gli altri.
Quale che sia la tesi che finirà per prevalere, possiamo osservare, come ritengono alcuni giuristi, che «in questo modo lo straniero è ridotto a un oggetto passivo»: gli stranieri non votano e non partecipano, né allo Stato, né al parlamento, né al governo, sono «alienati rispetto all’ordine giuridico, così come all’ordine politico e all’insieme delle istituzioni della società in cui vivono». A questo si deve aggiungere il fatto che l’Amministrazione ha il potere di interpretare, vale a dire modificare attraverso regolamenti e decreti, la giurisdizione esistente, cosa che può portare a fare del diritto degli stranieri un «diritto al ribasso».
Dopodiché nuovi stranieri inquietano ormai la globalizzazione: le rivendicazioni dei diritti spesso degenerano in vandalismo, o addirittura in gangster- integralismo e fanatismo che seminano morte. “Nuovi” perché agiscono, nel contesto di un risveglio della spiritualità, in nome di una spinta verso l’assoluto trasformata in quella che bisogna definire non più un’”idealità” (divina o universalista secolarizzata), ma una “malattia di idealità”. “Nuovi” perché in risonanza con i conflitti in Medio Oriente. E perché mettono in discussione il modello della secolarizzazione e della laicità.
Gli ideali stessi scompaiono, spazzati via dalla più pulsionale delle pulsioni, la pulsione alla morte, colpendo in profondità il motore della civiltà, mettendo in evidenza la distruzione del “bisogno di credere” prereligioso. Scopriamo che fra questi nuovi stranieri, alcune persone – in particolare adolescenti – soccombono alla malattia dell’idealità. Esplodono letteralmente, incapaci di distinguere il dentro e il fuori, il sé e l’altro. La pulsione alla morte riassorbe la vita psichica: senza il sé e senza l’altro, né “io” né “tu”, “noi” sprofondiamo nella distruttività cieca e autodistruttrice.
Le democrazie si trovano davanti a una sfida storica: sono in grado di affrontare questa crisi del bisogno di credere e del desiderio di sapere che il coperchio della religione non tiene più a freno, e che va a toccare il fondamento del legame fra esseri umani stranieri? L’angoscia che ci inchioda in questi tempi di eccessi con crisi economica e sociale sullo sfondo esprime la nostra incertezza davanti a questa posta in gioco colossale.
(La Repubblica, 17 giugno 2015)