16 Gennaio 2016

Sui fatti di Colonia un dettaglio non trascurabile.

di Luciana Piddiu


Condivido in larga misura le affermazioni rilasciate dallo scrittore algerino Boualem Sansal in un’intervista di qualche giorno fa. In Europa ci sono stati reticenza e ritardi nell’analisi dei fatti di Capodanno dovuti -a suo giudizio- a una sorta di autocensura che stampa e intellettuali si sono imposti. La vecchia Europa liberale ossessionata dal politically correct ha avuto paura di dire, ma “Il non dire è segno di una civiltà che muore, che si proibisce da sola di dire ciò che pensa.”

Kamel Daoud, anch’egli algerino, qualche giorno dopo si è spinto ancora più in là, affermando paradossalmente che si sente più libero di esprimere le sue opinioni in Algeria che in Francia, dove vige un’autocensura assoluta. Nella sua lunga intervista Douad usa un linguaggio crudo, ai limiti della provocazione e non fa sconti a nessuno: parla di porno-islamismo a proposito della rappresentazione del paradiso evocata dai predicatori in cerca di combattenti per la guerra santa. Quel paradiso più che ad un luogo di beatitudine spirituale somiglia ad un bordello. Ma il nocciolo della sua riflessione é senza dubbio interessante. Si parla di desiderio e di sessualità, temi a noi cari e su cui abbiamo a lungo riflettuto. “Il corpo delle donne è il luogo pubblico della cultura: appartiene a tutti ma non a lei….la posta in gioco è la donna….desiderio di tutti senza desiderio proprio. Il suo corpo è il luogo in cui tutti si incontrano, escludendola.”

Ci vuole coraggio per fare queste affermazioni che fanno impallidire quanto scritto finora dai nostri giornali. E tuttavia i fatti di Colonia, a saperli decifrare, ci dicono anche altro.

Qualcuno ha opportunamente parlato di una piazza Tahrir esportata dal cuore dell’Egitto in Germania. Certo la tattica usata –cerchi concentrici di maschi assatanati che afferrano, palpano, uncinano, penetrano donne braccate come prede e nascoste alla vista – è la stessa. Ma profondamente diversi i contesti: al Cairo donne giovani per lo più, in lotta per la democrazia, per la libertà dalla dittatura, per i diritti. Qui donne di ogni età desiderose di festeggiare in allegria l’ultimo giorno dell’anno. Che cosa accomuna due contesti così diversi? La presenza delle donne nello spazio pubblico. E allora dietro a questo bracconaggio ben collaudato io leggo un’ingiunzione antica: “stai al tuo posto”, il divieto tacito, non esplicitato ma non di meno reso intellegibile dagli sguardi famelici sul corpo delle donne.

L’interdizione dello spazio pubblico è in ultima istanza il senso delle aggressioni: alle donne è riservato il privato, la cucina, la casa, le incombenze quotidiane. Se osano trasgredire, sappiano bene cosa le aspetta. Detto in altri termini, la donna non si deve azzardare a uscire dall’angusto recinto che le è stato imposto da tempi immemorabili. Se proprio deve avventurarsi nella pubblica via, lo può fare convenientemente celata, nascosta, velata, intabarrata ma –come prescrivono i taliban in Afghanistan, non deve far rumore coi tacchi delle scarpe né far sentire la sua voce. Deve rendersi invisibile per la sua stessa salvezza.

In questo senso ha ben ragione Wassyla Tamzali quando dice che il velo è l’estensione nello spazio pubblico della pratica della segregazione sessuale. Non tacciatemi adesso di islamofobia. Quand’ero adolescente nella civile e colta città dove sono nata, Sassari, questa spartizione/distinzione era ancora largamente in vigore. Nel migliore Liceo della città vigeva una sorta di segregazione sessuale: maschi da una parte, femmine dall’altra. Classi separate, entrate separate, ricreazioni separate. La mia, nel 1964, fu la prima classe mista. Ma era in via sperimentale. Per non parlare poi dei caffè, dove nessuno ti vietava di entrare da sola, ma se osavi farlo percepivi un brusio di disapprovazione e sguardi non amichevoli. Chi ha vissuto nei paesi del Mediterraneo sa bene di cosa parlo. E tuttavia, negli ultimi cinquanta anni, agendo il conflitto ce lo siamo conquistate il diritto ad abitare lo spazio pubblico senza essere giudicate, importunate o braccate. Certo, rischi ne corriamo ancora. C’è sempre qualche ominide in agguato ma ci sono anche uomini responsabili e consapevoli che condividono il nostro percorso di libertà. Coloro cui diamo asilo e accoglienza dovranno farci i conti con la nostra ancora fragile libertà. E li potranno fare se noi, consapevoli della posta in gioco, non avremo paura di dire ciò che pensiamo e ciò che vogliamo, schierandoci con decisione accanto alle donne che all’interno di altre culture portano avanti la nostra stessa aspirazione al rispetto, all’integrità e inviolabilità dei nostri corpi, alla libertà.


16 Gennaio 2016, Ferney Voltaire (Francia)

 

(www.libreriadelledonne.it, 16 gennaio 2016)

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