9 Settembre 2015

Sul caso di Martina Levato

di Silvia Baratella

Cara Francesca,

 

ho letto le tue osservazioni, che mi hanno colpito e che rispecchiano i commenti di altre amiche e colleghe.

In base al tuo ragionamento e a quello di altri, con mio stupore soprattutto di altre, il riconoscimento della maternità dipenderebbe dalle qualità morali e umane della madre. Poiché la condotta di questa donna è particolarmente odiosa, sembra lecito decidere che non può essere madre del figlio che ha messo al mondo.

Non sono d’accordo. Prima di tutto, perché madre lo è già: quel figlio esiste perché lei ha deciso di farlo venire al mondo. Da questo fatto semplice e incontrovertibile siamo sempre partite per ogni ragionamento politico che riguarda la maternità, e credo sia bene continuare a farlo.

Molte donne che hanno commesso reati partoriscono quando sono già detenute. Per questo, nelle carceri femminili esistono dei reparti “nido” e, credo dal 2011, si prospetta la possibilità di arresti domiciliari per le donne con il figlio o la figlia fino ai suoi sei anni. Poi dev’essere trovata una soluzione, che spesso è l’affido a parenti, per permettere ai bambini e alle bambine di condurre un’esistenza normale.

Nei cosiddetti anni di piombo partorirono in carcere anche alcune brigatiste. A nessuna di loro fu mai tolta la creatura o negato lo statuto di madre, eppure agli occhi dell’opinione pubblica erano un esempio di efferatezza.

Dunque dal punto di vista giuridico la decisione preventiva di togliere, all’atto stesso del parto, il figlio a una madre che ha espresso l’intenzione di riconoscerlo costituisce un precedente allarmante.

Nel disconoscimento del legame tra madre e figlio o figlia c’è il rischio di negare simbolicamente la maternità come un atto di relazione e di libertà femminile, e di farne una concessione della società alle singole donne, da subordinare a un giudizio (di chi?) su di loro.

Ed è tutto da dimostrare che sradicare il bambino dalla sua origine e dalla sua storia faccia il suo interesse. Naturalmente, il rapporto tra madre e figlio in un caso come questo deve essere monitorato dai servizi sociali e, se necessario, interrotto a tutela del figlio. Ma dare una possibilità a lei significa anche darne una a lui: l’opportunità di sapere, vivendolo nella relazione, che è nato dal desiderio di sua madre.

 

Articolo di Alessandra Kustermann sul Corriere

 

(Libreria delle donne, 9/9/2015)

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