4 Ottobre 2022
#VD3

Sulla maternità – Un viaggio inaspettato

di Marta Equi


Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 Sulla maternità, domenica 2 ottobre 2022


La maternità […] è stata una nostra risorsa di pensieri e di sensazioni,
la circostanza di una iniziazione particolare.
(Carla Lonzi, 1970)[1]


Scrive così, nel 1970, Carla Lonzi, che non è di certo una pensatrice del materno e della maternità, eppure nella sua opera torna in maniera frammentata su un’esperienza di madre che lei stessa vive; leggerla in questa chiave mi ha accompagnata nel pensare per questa relazione in cui proverò a render conto di come per me maternità e gravidanza siano state anche esperienze di forza e di pensiero; trasformative non solo nei sensi più ovvi, ma anche nel senso femminista di una «trasformazione si sé che fa corpo con una possibile trasformazione sociale»[2].

Premetto che prendere parola pubblica su questo argomento è molto faticoso per me. L’esperienza della maternità costituisce ora, nel suo mistero, carne viva della mia vita – ho messo al mondo una creatura un anno e mezzo fa, e il corpo che avete di fronte porta di nuovo il segno di una gravidanza. Questo essere così addentro all’esperienza rende il lavoro del partire da sé ancora più insidioso. Sento, inoltre, necessità di cautela nel pronunciarmi su un’esperienza così abissale, che porta con sé implicazioni, doni e dolori diversi in ognuna di noi – madri e non madri.

Assumendo e accogliendo nel mio procedere questi disagi, credo però che sia importante iniziare a fare il lavoro di racconto di esperienze, che naturalmente non si esaurisce con le mie parole, ma che comincerà proprio nel dialogo comune di questo incontro, la cui posta in gioco è quella, come si legge nell’invito, di «far emergere un pensiero femminista sulla maternità fondato sull’esperienza, la parola e l’autorità delle dirette interessate: le donne, madri e no».

Non avevo mai desiderato essere madre. Come tale non mi sono mai immaginata, anzi, il presentarsi di questa immagine generava in me disagio. E poi, se la mente andava a soppesare la possibilità di avere un figlio venivo gettata nello sconforto, data la precarietà nella quale sta in equilibrio la mia vita – e le vite di tante donne della mia generazione. Eppure, durante il periodo della prima pandemia, proprio quando la precarietà e il senso di precarietà si andavano acuendo, quando l’idea di vita che ci eravamo immaginate iniziava a sbiadire, a mutare prospettive (sulla salute, sulla vita metropolitana, sulle relazioni, sull’organizzazione del lavoro…) è arrivato in me un desiderio di maternità. Improvviso, imperioso.

Manuela Fraire, nel DWF intitolato “Maternità Femministe” (2020) registra un aumento di desideri di maternità in lockdown, «come se – scrive – l’isolamento sociale provocasse per tutte quel rallentamento che ogni maternità impone»[3]. Non è stato quello nel mio caso, approfittare di un’imposta lentezza, bensì, piuttosto, un senso misterioso di voglia di resistenza e insieme di assunzione di responsabilità, apertura all’imprevisto in un momento in cui ogni strada sembrava sbarrata. «Il mondo ricomincia con ogni essere umano», – scrive Luisa Muraro nel testo Il lavoro della creatura piccola.[4]

Con questo non voglio naturalmente suggerire che le condizioni di precarietà scompaiano come per magia con il mettere al mondo una creatura, né che farlo possa costituire una risposta diretta ai problemi del presente. Piuttosto vorrei, da un lato, condividere come questo imprevisto nella mia vita mi abbia fatto inquadrare l’esperienza di maternità in un viaggio che non ha che fare con una consapevole scelta – si tratta di una parola che viene spesso usata per qualificare la maternità nell’epoca della libertà femminile ma che esprime un’idea che rimanda a qualcosa di programmato, razionale, qualcosa che ti porrebbe in controllo della vita e del suo fluire. Sono caratteristiche che non ritrovo in un’esperienza che nel suo farsi è piena di sbavature, che abita piuttosto uno stare nella vita organico, relazionale e vulnerabile. Dall’altro lato vorrei dire come l’esperienza libera del mettere al mondo abbia rappresentato per me e credo possa rappresentare per altre donne – naturalmente se così assunto e significato da colei che lo compie – un atto che scompiglia le carte date, in cerca della creazione del nuovo, come se la trasformazione del nostro corpo fosse promessa di un cambiamento anche nella società.

La gravidanza, ossia l’esperienza della centralità del mio corpo, è stata fondamentale in questo, per me. Dicevo prima di provare fastidio nel pensarmi come madre, come se, per diventarlo, avessi dovuto acquisire una specifica identità, consunta di significati già dati, caratterizzata da immagini svilenti e caricata di pressioni sociali ridicole – ne abbiamo avuto prova recentemente.

Una volta rimasta incinta, però, si è sciolta l’ansia definitoria e mi sono sentita solo io. Un corpo che era lo stesso e che si arricchiva di antri e forme per diventare due ma comunque uno. Ho capito con l’esperienza e non con il pensiero che sono corpo e che la mia identità è multipla. Il mio corpo di donna è segnato da essere stato anche un altro essere (non da averlo ospitato!). Infatti durante la gravidanza – che per me è stato un momento in cui ho provato senso di esplorazione, bellezza e giocosità; per trasmettervi meglio queste sensazioni le mie parole ci dovrebbero essere immagini, le fotografie di Paola Mattioli sulla gravidanza per esempio[5] – il mio centro sono sempre stata io, non l’essere che stavo generando. Vicino alla data del parto alcune amiche dicevano delle loro creature frasi come: «non vediamo l’ora di conoscerla», o «non vediamo l’ora di tenerla tra le braccia», e io mi sentivo estranea a questo sentire, tanto che la notte del mio travaglio è stata di commiato a me stessa in quella forma, a me stessa duale, alla mia pancia. Non c’era lui nei miei pensieri, ma sempre il mio mutevole stato. Quell’esperienza ha lasciato traccia in me come di un ricordo di potenza segreta e di possibilità di cambiamento: sono una donna, sono un essere multiforme che sa cambiare.

E in effetti cambia molto nella vita di una donna dopo il parto, almeno per i primi anni, quelli dell’accudimento di una creatura che dipende da te, tempo in cui la maternità può essere un’esperienza anche molto difficile, di solitudine e di fatica. Per me è stato così, e mi sono sentita compresa e rappresentata nelle parole di Lonzi, quando scrive, in una poesia del 1960 dei «giorni crudamente a fuoco» in cui ti senti «in stato di fermo», caratterizzati da «una lentezza inconciliabile con l’erompente ricognizione del mondo» che vive la creatura che ti sta davanti e con la quale avviene un incontro che lei definisce «un capolavoro di pazienza che mi sommerge, mentre lo solleva».[6]

Ci sarebbe molto da dire sui lati oscuri della maternità e forse alcuni interventi di oggi li metteranno in luce, non è mia intenzione soffermarmici ma piuttosto provare a dirvi come proprio il passarvi attraverso è stato, per me non privo di guadagni. Questo, lo stare nella perdita, nella fatica, nello scacco come passaggio di senso, mi viene suggerito da alcuni frammenti sulla maternità di Lonzi appunto, che accostano consapevolezza delle insidie della maternità – «una dilazione senza fine alla realizzazione di sé», la definisce in un passo del Diario[7] – ma anche del suo potenziale radicale per la vita di una donna: «La maternità – scrive – è il momento in cui, ripercorrendo le tappe iniziali della vita in simbiosi emotiva col figlio, la donna si disaccultura. Essa vede il mondo come un prodotto estraneo alle esigenze primarie dell’esistenza che lei rivive. La maternità è il suo ‘viaggio’».[8]

Questo della disacculturazione è un passaggio che sento come vero, e centrale, di cui però non so dirvi fino in fondo. Posso dire qualche elemento.

“Disacculturarsi”, per me, ha voluto dire togliere credito al lavoro come unica possibile sfera di realizzazione e di identità, non nel senso che ho capito che c’è un’altra sfera, quella domestica, di possibile realizzazione, ma piuttosto nel senso che mi ha portato a demistificare alcune pratiche lavorative di pretesa di assorbimento totale della mia vita. Mi sembra poi di aver acquisito con la maternità una postura di ironia e libertà rispetto alle piccole cattiverie del mondo del lavoro, insieme a più efficacia nel fare le cose e nell’assegnare priorità.[9] Mi ha messa di fronte alla scomoda sensazione di dover chiedere aiuto, mi ha fatta misurare con la sapienza del dire di no – non sono ancora brava a far questo, confesso. Per dire, se non fosse già ovvio, che si tratta di guadagni da riconquistare ogni giorno, ogni singola volta, mai acquisiti definitivamente.

Disacculturarsi ha poi voluto dire vivere delle esperienze di quotidianità che mi hanno mostrato qualcosa che prima non avevo mai incontrato. Confrontarmi con l’intensità che l’attenzione all’altro richiede – cosa così difficile da praticare, così brillante nel momento in cui accade – e con la gratuità dei gesti di cura, «quelli – mi appoggio ancora alle parole di Lonzi – che non diventano un prodotto, ma solo un accudire»[10] che sono assai concreti e spesso molto poco poetici. Questo confronto è stato ed è per me un’esperienza – tutt’ora enigmatica – che mi ha insegnato con più radicalità di quanto non sapessi già, teoricamente, a stare attaccata alle cose, all’imperfezione, al non finito, al macchiato.[11]

La maternità, nei suoi aspetti più concreti, è un’esperienza ambivalente, che merita attenzione e parola politica. Da un lato, per continuare a resistere al rischio sul quale dobbiamo sempre vigilare che le esperienze del quotidiano femminile oscillino tra esaltazione stereotipata e cancellazione, essendo relegate alla sfera privata, ai margini della società attiva e pensante, e dall’altro perché si stanno configurando altri luoghi e altri contesti che si stanno appropriando della narrazione della maternità consegnandola a dinamiche di estetizzazione, messa a valore e disprezzo, come ci racconta in parte la relazione di Daniela Santoro.

Per questo è importante un momento di dialogo come questo e lo è in particolare a partire da un luogo come questo che ci ospita, un luogo fondamentale per il femminismo italiano che tanto ha lavorato sul materno e per lasciare a noi nuove generazioni una libertà e una felicità possibile.


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 4 ottobre 2022)


[1] Carla Lonzi, Sputiamo Su Hegel, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1970, p. 31.

[2] Mi riferisco con questa espressione alla formula coniata a proposito della Pratica del Fare nel testo Il tempo, i mezzi e i luoghi, Sottosopra Senape, 1976.

[3] L’impresa di diventare madre. Intervista a Manuela Fraire di Patrizia Cacioli e Teresa Di Martino (2020), DWF “Emme Effe Maternità Femministe”, 2020 3-4 (127-128), p. 16.

[4] Luisa Muraro (2013) Il lavoro della creatura piccola. Continuare l’opera della madre. Mimesis, Udine 2013, p. 11.

[5] Paola Mattioli, Sara è incinta, 1977.

[6] “Maternità”, Carla Lonzi, in Scacco Ragionato, Poesie dal ’58 al ’63, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1985, p.158.

[7] Carla Lonzi, 1978, Taci Anzi Parla. Diario di Una Femminista, Milano: Scritti di Rivolta Femminile, p. 872.

[8] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1970, p. 36-37.

[9] Su questo si veda per esempio Andrea Vitullo, Riccarda Zezza (2014) Maam. La maternità è un master che rende più forti uomini e donne. BUR Rizzoli, Milano 2014.

[10] C. Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1978, p. 767. E ancora: «La donna genera un nuovo essere, non un prodotto.», Diario, p. 714.

[11] Naturalmente il pensiero femminista ha già lavorato molto sulla quotidianità, la domesticità e le pratiche che le sorreggono, lette come possibili spazi critici. Ida Farè per esempio, per citare una donna attiva politicamente in Libreria delle donne, a fine anni novanta e nei primi duemila ha formulato l’idea di un “bricolage” di saperi che può emergere dalle esperienze quotidiane femminili, qualificandolo come “intelligenza del quotidiano”. Non si tratta – e questo è davvero importante – di essere assimilate dal domestico, ma piuttosto, come precisa Farè, di imparare a riconoscere, nominare, valorizzare «questo sapere corporeo e antico […] per portarselo appresso […] qualsiasi professione si debba svolgere al tempo della libertà femminile».  Ida Farè (2009), L’intelligenza domestica, in “Intossicano gonfiano rubano strozzano… e la chiamano economia”, Via Dogana 89, giugno 2009, pp. 5-7; Ida Farè (1996), L’intelligenza della cura. Intervista a cura di Gianni Saporetti, Una Città n. 53/1996, ottobre.

Per citare invece un esempio contemporaneo, Linda Bertelli sta portando avanti un lavoro di ricerca su una possibile definizione di un’estetica femminista del quotidiano. L. Bertelli (2021), L’aria necessaria. Gesti di estetica femminista, in “Io dico Io”, a cura di C. Canziani, L. Conte, P. Ugolini, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, pp. 134-147; L. Bertelli, (2021) La quotidianità della rivolta. Alcune osservazioni per un’estetica femminista e un suo possibile uso a vantaggio dell’oggetto fotografico, in C. Casero (a cura di), “Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni ’70: rispecchiamento, indagine critica, testimonianza”, Postmedia books, Milano, pp. 51-61.

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