22 Marzo 2014
Pedagogika

Tra donne e uomini dialogando con Marco Deriu

a cura di Barbara Mapelli

 

[…]

c’è un tema che mi sta molto a cuore, una forma che possiamo condividere, almeno come impostazione generale, tra donne e uomini: lavorare insieme, formare gruppi e occasioni di confronto tra i generi, mantenere però al contempo momenti di separatezza, per incontri e riflessioni solo all’interno di un genere. Penso che tu sia d’accordo e mi sembra che così stia procedendo anche il movimento degli uomini, credo che non si debba perdere l’equilibrio tra questi due impegni poiché mi sembra che l’uno nutra l’altro, mi piacerebbe sapere qualche tua riflessione a questo proposito.

 

Io credo che sia fondamentale che la questione della violenza maschile sulle donne non rimanga una questione “femminile”, che riguarda solo chi la violenza la subisce. Occorre una consapevolezza sociale maschile che faccia venir meno le forme di complicità, di tolleranza, di giustificazione. E allo stesso tempo è fondamentale che gli uomini che hanno a che fare con culture e forme di socializzazione intrise di violenza contribuiscano a ripensare e a superare queste mentalità. Quello che voglio dire è che l’assunzione di uno sguardo riflessivo e critico può permettere agli uomini di riscoprirsi una competenza in questo campo, che aiuti a contrastare la pervasività di questo fenomeno. Proprio perché la violenza fa parte dei percorsi di socializzazione e apprendimento maschile, perché struttura valori, rappresentazioni e aspettative, gli uomini possono riconoscerne, aspetti, sfumature, logiche e dinamiche.

 

Non bisogna poi dimenticare che la violenza si sviluppa nelle relazioni. Non è solo una somma di atti ma ha le sue dinamiche e processualità. Penso che da questo punto di vista solamente lavorando insieme e integrando il punto di vista e il vissuto degli uomini e delle donne, si possa conoscere più a fondo questo fenomeno. Tuttavia questa collaborazione, questo lavoro comune è possibile solamente se ciascuno fa la sua parte, se ciascuno mostra di saper interrogare se stesso, la propria cultura di genere, le forme di relazione tipiche del proprio genere. Solo uomini e donne consapevolmente autoriflessivi possono trovare la fiducia, la curiosità e l’interesse per lavorare assieme.

Dunque come dici tu è necessaria una dialettica tra il lavoro che si conduce nello spazio simbolico, psicologico e sociale del proprio genere e quello che si dispiega nel lavoro con l’altro sesso. Le due cose si richiamano perché non c’è consapevolezza di sé senza riconoscimento della relazione con l’altro. E viceversa.

 

Infine uno snodo obbligatorio, ma molto complesso, una specie di fantasma che si aggira tra noi e che conosciamo perché, almeno noi ‘vecchie femministe’, ne abbiamo a lungo dibattuto: il lavoro che stiamo facendo, che potremmo sbrigativamente definire di fondazione di una nuova civiltà tra donne e uomini, ha chiaramente una straordinaria valenza politica, ciò non toglie che ben difficilmente può conformarsi alle forme tradizionali della politica stessa, anzi vi si oppone. Allora come dare visibilità, incidere, muoversi nel pubblico senza rischiare di perdere la nostra identità, il senso complesso e profondamente trasformativo della nostra ricerca?

La questione è molto complessa e non è facile rispondere brevemente senza ridursi a dire banalità. Quello che mi sento di dire è che da una parte occorre un lavoro profondo di interrogazione dei fondamenti su cui si è costituita una politica non solo senza le donne, ma in buona misura contro le donne e contro ciò che rappresentano. Voglio dire che non è sufficiente denunciare i limiti della politica maschile se non si capisce a fondo che cosa del simbolico femminile fa problema fino all’angoscia nell’esperienza maschile e nell’idea maschile della politica. Al fondo io credo che ci sia nell’idea di politica maschile, la concezione di un individuo che può rappresentare lo stato o le istituzioni solo in quanto emancipato o disposto a trascendere i suoi legami e i suoi doveri famigliari. C’è la pretesa di lasciar fuori o non farsi condizionare da tutti quei vincoli che ci legano alla cura e alla manutenzione delle relazioni fondamentali e che disvelano la nostra inevitabile vulnerabilità e dipendenza dagli altri. Le sole relazioni che si  riconoscono e che contano sono quelle che si costruiscono razionalmente e strategicamente nello spazio pubblico. Non quelle che ci legano al nostro mondo domestico, ovvero alla nostra nascita. L’esclusione del femminile e la conservazione di una certa antropologia politica sono profondamente connessi. L’esperienza femminile e l’autorità femminile per me richiamano un sapere delle relazioni e una consapevolezza dell’interdipendenza. Quello su cui mi interrogo dunque è la possibilità rendere pubblico assieme un senso di autorità non narcisistico ma nutrito di relazioni e con questo un senso diverso delle relazioni tra uomini e donne. Non si tratta secondo me di portare queste relazioni nello spazio politico delle istituzioni tradizionali, quanto piuttosto di fare in modo che queste relazioni diventino talmente significative da creare un nuovo senso dello spazio pubblico, con forme, prassi e valori differenti. Ovvero occorre avere fiducia che queste nuove relazioni possano diventare esse stesse istituenti, anche se questo potrebbe richiedere del tempo e dei rischi.

www.pedagogia.it – marzo 2014

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