13 Febbraio 2015
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Trasformare la paura, si può

di Zazi Sadou


Fra le testimonianze di Zazi Sadou tradotte e pubblicate in Italia (“Ho scelto di lasciarvi immagini di vita e di bellezza”, Diotima,
Il profumo della maestra, Liguori 1999; “Lotta al terrorismo. Imparare dalle donne d’Algeria” (“Via Dogana”, n. 58/59 2001, dopo l’11 settembre); “Trasformare la paura, si può” (Quaderno di Via Dogana, Fare pace dove c’è guerra, 2003), Secondorizzonte ha ritenuto opportuno riproporre quest’ultima.
Si tratta infatti di una narrazione ricca di riflessioni profonde e di insegnamenti sapienti, purtroppo straordinariamente attuali, riguardo alla maniera di trattare la paura con la quale il terrorismo cerca di distruggere ogni disponibilità all’apertura e all’incontro tra esseri umani, facendoci dimenticare ciò che ci lega al di là delle appartenenze religiose e delle differenze culturali: l’amore per una terra accogliente e il rifiuto della violenza sotto ogni forma.
“Trasformare la paura, si può”, nella versione integrale è disponibile a stampa, nel Quaderno di Via Dogana Fare pace dove c’è guerra. Il Quaderno è in vendita alla Libreria delle donne (via Pietro Calvi 29, Milano) – che ringraziamo per l’autorizzazione alla riproduzione del testo sul nostro sito – e si può richiedere scrivendo a info@libreriadelledonne.it

La paura è come la morte, la morte violenta. Non c’è niente di peggio. La paura è un sentimento ancor più forte dell’amore, della gioia. È qualcosa di talmente forte che, se arriva a dominare il suo pensiero, il suo corpo, la persona è morta. Non fa più niente… Malgrado la paura, siamo riuscite a creare un luogo di legami sociali, di solidarietà. Io uso la parola “strategia” perché noi abbiamo cercato di mettere in gioco delle azioni precise, volte a rompere il cerchio della paura collettiva. Quando una persona è isolata ha paura. Ma se sono migliaia le persone che hanno paura è l’isolamento più totale. Quando l’integralismo è arrivato con il terrore per inchiodare tutti al silenzio, alla paura, una voce si è alzata per dire: rompete il silenzio, perché questo silenzio è la morte. Sono state per prime le donne ad alzare la voce in Algeria, come risposta collettiva.*
Io credo che in ogni situazione, e non solo in Algeria o in Bosnia o in Afghanistan (società attraversate da conflitti sanguinosi), le risposte alla paura, a questa esperienza umana dolorosa, debbano essere le stesse.


La paura è un sentimento che tutti conoscono, più o meno. Confesso che io ho molta paura: lo so, l’accetto, la faccio diventare parte integrante di me stessa. È un sentimento orribile che paralizza. Sono d’accordo che occorre parlarne: è necessario poterla esprimere, ma solo a condizione che il parlarne non la renda contagiosa.
Per esperienza, infatti, riconosco tre tipi di paura. C’è questa paura contagiosa: una persona può suggestionare un gruppo distruggendo ogni possibilità di reazione, ogni possibilità di difesa, ogni possibilità di resistere. Sono situazioni di violenza estrema.
C’è la paura paralizzante, ha lo stesso effetto del tetano: se la persona o il gruppo che si trova in questa situazione non riesce a trasformare questa paura in un altro sentimento, come la rabbia ad esempio, per potere reagire e per potere attingere al massimo di energia per affrontarla, è la morte certa, è la prigione, è l’abbassare le braccia. La paura si prende tutto, è dare alla paura tutto il potere, sia da parte di singolo che da parte di un gruppo sociale o politico.
Infine, c’è la paura che personalmente, e penso anche collettivamente, abbiamo cercato di trasformare in paura motivante. Noi abbiamo conosciuto tutte le forme di paura. Ma è appunto quest’ultima, quando siamo riuscite a trasformarla in un guadagno di conoscenza, che ci ha dato la rabbia e di conseguenza la forza di reagire e di agire molto rapidamente.
Ogni individuo che vive la paura sa che è qualcosa di terribile, la paura può trasformare una persona, può trasformare un soggetto in una pecora. A quel punto, puoi fare di lui quello che vuoi. La paura è anche un segnale importante, ma quello che i movimenti totalitari fanno è di manipolare la paura degli individui. I gruppi armati islamisti in Algeria hanno usato la paura e il terrore per mandare in pezzi la società, per cancellare la presenza delle donne nei luoghi pubblici e per prendere il potere. La resistenza, nelle sue diverse forme, ha avuto l’effetto di far regredire la paura collettiva, ostacolando questo processo.
All’inizio, c’è stato l’assassinio di poliziotti, di uomini della gendarmeria, di militari. La società non ha ceduto. Noi abbiamo manifestato fin dai primi assassinii. Poi c’è stato l’assassinio di intellettuali, e di giornalisti.
C’è stata una resistenza civile, la società non ha ceduto. In seguito, a partire dal 1994, c’è stata un’altra fase: paralizzare, immobilizzare la società toccando il cuore della famiglia, cioè attaccando le donne. Bisogna considerare il ruolo delle donne nella rappresentazione simbolica, in società di tipo patriarcale come la nostra. Toccare una donna, violentare una ragazza nella sua casa, alla presenza dei fratelli, alla presenza del padre, provoca delle ondate di shock. Situazioni di questo genere sono state prodotte su larga scala. La violenza sessuale è stata utilizzata in Algeria dai gruppi armati per terrorizzare la società. Sono state spesso le madri che hanno cercato di opporsi alla violenza e al sequestro della propria figlia. Ci sono casi concreti. Nella maggioranza delle testimonianze che abbiamo raccolto, le giovani donne violentate non volevano più ritornare a casa perché si sono sentite abbandonate dal padre e dal fratello che non hanno mosso un dito per proteggerle. È facile immaginare le conseguenze di queste relazioni nella società: viene lacerato in profondità il tessuto sociale, che poi deve essere ricostituito. Abbiamo lavorato in situazioni di violenza estrema, di terrore. Essendosi questi casi moltiplicati, a partire dal momento in cui un numero sempre più elevato di ragazze venivano violentate o sequestrate, c’è stata una reazione che si può definire salutare perché un numero sempre maggiore di uomini hanno cominciato a organizzarsi in gruppi di resistenza. Padri di famiglia, nella loro testimonianza, mi dicevano: io ho impugnato le armi perché sono venuti ad offendere l’onore di mia figlia. Ma, con l’organizzazione della resistenza divenuta sempre più importante in tutta l’Algeria grazie alla formazione dei gruppi di autodifesa e di patrioti, l’attività dei gruppi armati terroristi ha subito un’evoluzione: è stato in quel momento che sono cominciati i massacri. Non era più una persona soltanto o una famiglia ad essere colpita, ma centinaia di persone che venivano assassinate nei villaggi. Massacri con un unico obiettivo: generare terrore per annientare ogni tentativo di opporsi ad essi.
Fare delle manifestazioni, delle marce, parlare in pubblico, intervenire in una conferenza o scrivere esponendosi con il proprio volto e con il proprio nome, ha significato dire: io non ho paura di voi; io non posso tacere le cose che penso. Questa è stata in ogni momento la nostra politica, che toglie terreno a chi ricorre all’arma della paura. Ma ha anche l’effetto di far regredire la paura dentro di sé e farla regredire negli altri.
Ho visto rinascere la fiducia nelle relazioni. Quando un gruppo di individui constata che ci sono persone le quali, nonostante la paura che sentono non rinunciano a dichiarare orribile il progetto di coloro che minacciano tutti usando il terrore, si crea un luogo di solidarietà.
Abbiamo dovuto anche trovare una lingua più potente della loro per dire che il nostro progetto è la vita. In questo modo noi stesse non ci siamo lasciate paralizzare dal terrore, dimostrando ad altri, ad altre che era possibile non lasciarsi trascinare fino in fondo dalla paura.


Coltivate la bellezza

Coltivate la bellezza: anche questa non è un’indicazione teorica, ma una pratica sperimentata personalmente. Questo è stato un orientamento costante.
Nel periodo più duro, più mortifero, più mortale dell’Algeria e della mia vita, la vita del mio paese, dal 1992 al 1997, per me Zazi, è stato il periodo più ricco di emozioni di bellezza. È stato in quel momento che ho ritrovato tutta la bellezza della poesia, tutta la bellezza della pittura. In questo momento difficile mi sono rifugiata nella bellezza, mi sono affidata alla bella poesia; alla poesia francese, René Char… alla poesia araba, ci sono superbi poemi nella tradizione araba, ho ritrovato Nazim Hikmet, ho ritrovato la Gioconda di Si Ya U**.
Avevo avuto nell’adolescenza una grande passione per le liriche, in quel periodo romantico la poesia mi aveva accompagnato per tutto il tempo della maturazione… ma in quel momento di grande paura che mi obbligava ad una resistenza terribile ho ritrovato tutta la potenza della poesia: una ricchezza di immagini, una lingua per non lasciarmi andare, per continuare a pensare.
Quando ritornavo da un viaggio portavo delle fotografie… Ogni volta che mi era possibile farlo, entravo in un museo: quando venivo a Parigi andavo al Louvre, all’Orsay… così in Germania, a Berlino. Avevo un bisogno mentale e fisico del contatto con la pittura. Davanti a tanta bellezza cercavo di riconciliarmi con gli esseri umani, avevo bisogno di soffocare la paura, di curare i traumi profondi prodotti dal terrore: mi trovavo continuamente faccia a faccia con la morte, con il dolore, con la disperazione, con le grida, le lacrime… tutto questo mi entrava dentro. Io cercavo un messaggio che mi restituisse la fiducia nella specie umana.
Mi rendo conto oggi che mi affidavo a queste cose. Solo adesso, mentre ne parlo, prendo coscienza che è stata realmente una “strategia”: mi ha permesso di continuare a credere negli esseri umani e nella capacità di creare cose belle per annientare la paura e il terrore. Ascoltavo anche molta musica classica. Ogni giorno mi prendevo una, due ore per vedere libri… Io non ho una cultura artistica appresa a scuola, da sola stavo scoprendo i pittori, sentivo che mi faceva bene guardare ad esempio le opere degli Impressionisti, leggere la critica… era un bisogno fortissimo.
Ho avuto anche un altro bisogno: di essere molto curata nel vestire, mi obbligavo ad essere ogni giorno ben truccata e obbligavo a questo anche le mie amiche. Dicevo: quando partecipiamo a un evento pubblico… mettetevi belle, portate i gioielli più belli, non lasciatevi abbattere da quello che succede, la bellezza delle donne è già resistenza. È resistenza all’uniforme, resistenza al diktat dell’islamismo politico che nega per la donna ogni forma di espressione: in quanto donne, noi esistiamo solo come riproduttrici della specie. Occupando lo spazio pubblico e riconoscendo la nostra bellezza, mostrando che noi abbiamo degli occhi, abbiamo un corpo eravamo consapevoli di dare un messaggio preciso: noi abbiamo cura dei nostri corpi, non siamo delle guerriere, siamo delle donne che rifiutano quel diktat. Il fatto di renderci visibili ha dato molto coraggio anche alle altre.
Una donna molto consapevole della forza che può venire dall’arte è stata una cara amica, Anissa Asselah. Come altre donne, ha giocato un ruolo importante per l’Algeria perché era una donna dotata di un coraggio enorme. Una donna di cui il marito e il figlio, il loro unico figlio, sono stati assassinati lo stesso giorno nella scuola delle Belle arti. Il marito era professore e il figlio studente dell’ultimo anno. Dopo questo assassinio, lei non si è lasciata paralizzare dalla paura e si è messa alla guida del movimento degli artisti. Ha fatto cose straordinarie, coraggiose, importanti per l’Algeria e conosciute anche altrove. La sua azione, tramite soprattutto la Fondazione Asselah (il cognome del marito e del figlio), ha fatto conoscere la resistenza degli artisti algerini e degli artisti in generale. Fino alla sua morte, avvenuta in un banale incidente di macchina, ha fatto di tutto per coltivare la creatività dell’arte contro la potenza della morte; ha permesso a decine di artisti, ragazzi e ragazze, di fare ricerca, di fare mostre, di creare, di partire per la loro formazione… I giovani erano dell’età del figlio. Attraverso quei ragazzi, era suo figlio che continuava a vivere. La sua è stata un’azione sublime. Ogni anno ha commemorato la memoria del figlio e del marito non attraverso dei discorsi, ma con grandi manifestazioni artistiche.


Non si può scrivere la storia con una gomma

Ci vuole molta forza per lavorare in una situazione come la nostra. Anche oggi. Qualche volta mi chiedo come è possibile che un individuo sia a tal punto coinvolto nella vita del suo paese… È un problema che mi sto ponendo oggi. Mai mi ero posta la questione dell’utilità o inutilità di quello che stavo facendo, ossia del mio impegno e dell’impegno delle mie amiche. Il solo momento in cui ho reagito chiedendomi perché, è stato quando ci fu la decisione di Bouteflika, l’attuale presidente, di concedere l’amnistia ai terroristi. Lo shock è stato così forte che, politicamente, lo paragono all’11 settembre. Certo avevo molti segnali, ma è stata un’altra cosa vedere l’attuazione di un progetto che rappresentava la cancellazione di migliaia di vittime. La legge cosiddetta della concordia le ha uccise una seconda volta accordando l’amnistia a dei criminali, soggetti che si sono sporcati di crimini contro l’umanità. La cosa ha avuto su di me degli effetti così devastanti, che mi sono trovata malata, ho avuto il vomito per ore, la febbre è stata così alta che nel sonno deliravo, parlavo, piangevo… Eppure avevo avuto degli shock terribili: l’assassinio dei miei amici, i funerali, tutti i giorni, il dolore di donne violentate, l’ascolto dei loro racconti. Ero sempre riuscita a mettere da parte traumi profondi per continuare a fare delle cose, anche se sapevo che un giorno o l’altro sarebbero ricomparsi all’improvviso. E infatti sono ricomparsi regolarmente. Ma, malgrado tutto questo dolore, soprattutto per certe uccisioni che mi hanno segnata, non ero mai arrivata a questo punto, di un delirio totale per tre giorni. Appena ho sentito la notizia, mi sono messa a vomitare come se avessi bevuto del veleno… E questo mi ha portata a pormi la questione e a riconoscere che una persona funziona con le sue viscere, con il suo cuore, con tutto il suo essere. Può ritrovarsi in una posizione in cui non si può più tirare indietro, non ha più il distacco necessario, non riesce più a tenere distanti le cose da tutto il suo essere. Non si tratta di perdita di lucidità politica: io vedevo le cose, ci sono cose che sono di un’evidenza estrema, ascoltavo, leggevo, sapevo che sarebbe finita così. Ma quando è successo, è stata un’enorme differenza. Ho visto intorno a me in quel momento una grande crisi, penso che molte persone si sono ammalate per la depressione che ci è venuta addosso, eravamo nell’incapacità di trovare delle soluzioni collettive perché le persone erano depresse. Al contrario, quando abbiamo trovato l’azione da fare, immediatamente c’è stata una reazione. Non eravamo numerosi, non c’è stato il movimento che c’era stato precedentemente, e questo perché le persone non credevano più nella politica. Ci ritrovavamo in duecento, in trecento… era un’azione pubblica per dire: noi rifiutiamo quell’ordine là. E dire agli altri: non importa, dovreste reagire; non c’è una sola via, quella decisione è una strada presa dal potere politico, ma la società può dire di no.
L’effetto della depressione si può paragonare a quello paralizzante della paura.
Non siamo riuscite a bloccare la legge, ma almeno abbiamo imposto il dibattito ed evitato che ci fosse l’unanimità. Oggi tutti sanno che in questa società ci sono migliaia di persone che non sono d’accordo. Tutti i giorni la stampa ha parlato di questo.
Il problema che abbiamo oggi è di impedire l’amnesia, è la memoria che permette di non chiudere la porta alla speranza e di ritrovare fiducia nell’agire politico.
Lavoriamo sulla memoria, una memoria che apre delle porte, non una memoria che ci fa rinchiudere nei fatti accaduti. L’8 marzo di due anni fa, insieme ad altre tre associazioni, abbiamo deciso di organizzare un grande momento dove per la prima volta in una sala di milleseicento persone una donna che è stata violentata è venuta a testimoniare. Una donna di 45 anni, con cinque figli, e che è stata violentata davanti a due dei suoi bambini. L’abbiamo fatto perché siamo convinte che la parola delle donne è importantissima nella costruzione della memoria. Le donne che hanno subito violenza, compresa quella coniugale, tacciono perché hanno vergogna. È nato un messaggio: “la vergogna deve cambiare campo”. Le donne che hanno subito violenza non devono più provare vergogna. Sono quelli che l’hanno fatta a doversi vergognare. E la società che permette questa violenza. Discutendo con questa donna che diceva di non poter parlare per la vergogna noi siamo riuscite a convincerla che non doveva reggere lei il peso della vergogna. Ha accettato di testimoniare. All’inizio era protetta da un velo e doveva parlare senza mostrare il volto al pubblico. Il pubblico era stato preparato, abbiamo chiesto il silenzio e spiegato il significato dell’azione che lei avrebbe fatto, perché le persone non pensassero che noi stavamo usando il suo dolore. Abbiamo chiarito che tutti devono sapere quello che molte donne avevano vissuto, per rompere il muro del silenzio. Riconoscere il suo dolore era già aiutare a ricostruire se stessa. Questa donna ha cominciato a parlare e, dopo un attimo, si è voltata completamente verso la sala, ha sollevato il velo per mostrare il collo che si gonfiava a forza di gridare. Si è rivolta alle persone presenti impadronendosi della nostra parola d’ordine e dicendo che questo non doveva mai più succedere. “La vergogna deve abbandonare i nostri corpi”, ha gridato. “La vergogna devono provarla coloro che hanno fatto questo e coloro che hanno taciuto davanti a quello che stava succedendo”.
Credo che sia molto importante, in conflitti che coinvolgono l’avvenire e il divenire di milioni di persone (come quello che sta avvenendo in questi anni in Algeria, come era avvenuto nella guerra di liberazione), che coloro che sono al potere non falsifichino i fatti. Quando ad esempio noi facciamo una manifestazione per onorare delle donne coraggiose vive e ricordare altre che non ci sono più, istituendo “Le Prix de la résistence des femmes contre l’integrisme et contre oubli” (il Premio della resistenza delle donne contro l’integralismo e l’oblio), disturbiamo la politica ufficiale. Dal 1999, ogni anno facciamo questa manifestazione. C’è da parte delle persone che sono attualmente al potere la volontà di provocare un’amnesia collettiva, di voltar pagina e di mettere a posto le cose come se non fosse accaduto niente. Noi diciamo: no, c’è stato qualcosa; ci sono gruppi politici che hanno deciso di far guerra a questo paese perseguendo un progetto totalitario (fascista). E questa volontà non si è arresa. Ci sono gruppi che hanno violentato le donne, ucciso intellettuali, decapitato questo paese. E sono ancora attivi. Quando la mia memoria ricorda quello che è accaduto, vedo tutta l’ingiustizia che si sta commettendo. Un paese democratico non può fondare se stesso sull’ingiustizia, non si può costruire sull’amnesia, non è possibile. Siamo al paradosso che lo Stato dà riconoscenza a coloro che hanno dichiarato la guerra. Non si può dimenticare che sono state assassinate persone, intellettuali, giornalisti, donne che lottavano per un progetto che non ha niente a che vedere con l’islamismo politico. Sono morti perché volevano una vita democratica. Oggi in Algeria disgraziatamente il potere va avanti con l’amnistia – noi la chiamiamo “la legge dell’amnesia-amnistia”. È tutto coerente: l’amnistia provoca l’amnesia, l’amnesia induce all’amnistia. E noi diciamo: attenzione, quelli che hanno ucciso non hanno rinunciato al loro progetto. Occorre contrastarlo anche oggi. Le donne hanno fatto un lavoro straordinario nella coscienza collettiva, nell’aver sconfitto la paura. Tutti, uomini e donne, lo ammettono e dicono che le donne in questi dieci anni sono state coraggiosissime… Ma noi diciamo che le belle parole non valgono niente: la condizione di schiave nella quale gli uomini tengono le donne non è conforme allo spirito di libertà che hanno difeso. Dunque, se riconoscono nelle donne “i cavalieri della libertà”, chiediamo come possono accettare per loro uno statuto di schiave. È un argomento fortissimo.
Ma oggi c’è anche un altro sentimento da sopportare e per il quale dobbiamo trovare delle pratiche che lo trasformino, perché può essere distruttivo: è il risentimento, che nasce dal senso dell’ingiustizia. L’ingiustizia da parte dello Stato, che ha fallito il suo compito; uno Stato di diritto che non applica le leggi della Repubblica concedendo l’amnistia ai terroristi, ai capi terroristi. Il risentimento è verso questo Stato. Noi stesse, ciascuna di noi è attraversata dal risentimento. (Non posso dimenticare centinaia di amici e compagni sepolti. Abbiamo visitato tutti i cimiteri per seppellirli. Non posso dimenticare la vita difficile, il dolore, la paura di tutti questi anni. Non posso dimenticare che dopo l’assassinio di una coppia di amici ho avuto una della paure più grandi della mia vita: per un’intera settimana non ho dormito e passavo tutte le mie notti dietro una finestra per controllare cosa stava succedendo nel quartiere.) Si prova risentimento, ognuna di noi lo prova, anche quando si lavora con donne che sono state violentate, con donne alle quali sono stati assassinati i mariti, quando si lavora con i bambini. Hanno il dolore negli occhi. In un gruppo di bambini, sappiamo riconoscere, senza che nessuno ce lo dica, i bambini che sono stati traumatizzati dall’assassinio del padre o della madre, rispetto ai bambini che hanno avuto una vita normale.
Ci sono delle scelte davanti a questa situazione: o si cede all’indifferenza, dato che sta durando da talmente tanto tempo che c’è una saturazione, oppure si cede al risentimento. Oppure si dice no all’in-differenza, no al risentimento. E no ancora una volta alla paura (perché non è ancora finita).

Tempo del lutto, tempo del silenzio e della parola
La strada che abbiamo preso è un cammino di ricostruzione della vita individuale e collettiva.
Non possiamo lasciar andare la memoria. Non si può guarire dei traumi passati, rimuovendo il passato. Per liberarsi dal passato, per guarire dal dolore della morte occorre fare il lutto. Prendere semplicemente la distanza è un esercizio che ho verificato essere impossibile per lo spirito… Si può prendere la distanza con gli anni quando si sono trovate risposte alle domande che tornano continuamente. “Mio figlio, mio marito, mia madre, mia sorella, mia figlia sono stati uccisi, sono state stuprate: perché? Da chi? Come mai? E come io riabilito queste persone?”
Se devo fare il lutto, devo fare il lutto per il morto. Nella nostra cultura il morto è uno spirito che viene interrato con il corpo: dunque il lutto è un’azione collettiva. Se una ragazza torna ed è stata violentata, trovare i responsabili è un atto di giustizia verso di lei. A mio avviso costruire un paese sull’amnesia è assolutamente impossibile. Noi vediamo che tutte le pagine della storia che sono state nascoste (nei fascismi, durante la guerra d’Algeria…) tutte stanno venendo fuori. Non si può scrivere la storia con una gomma. Bisogna scrivere la storia con tutti i fatti, è così che un individuo sente che appartiene a un collettivo.
Il tempo del lutto è decisivo. Tutti i lutti, piccoli e grandi, chiedono tempo, lavoro… tutte le rotture, tutte le lacerazioni. Quando l’individuo è coinvolto interamente, con i suoi affetti, serve un tempo di guarigione, un tempo in cui il lutto prende la sua forma con il silenzio, con la parola, con le lacrime… con un lavoro di recupero dell’energia. Io credo che non si possa fare economia di questo tempo e dire: la storia è passata.
Vedo altrimenti delle conseguenze disastrose: quel passato è come un ascesso, una malattia; se non si fa il lavoro della memoria (sarà tra quarant’anni, cinquanta…) questo ascesso che si è lasciato ingrossare, ingrosserà, ingrosserà finché non esploderà. Quello che l’amnistia-amnesia provoca è questo ascesso che si sta incistando e provocherà qualcosa di grave che finirà per corrodere la società. La dialettica dei movimenti sociali e della coscienza umana è analoga. Guardiamo la storia, da duemila anni o da quaranta… Vediamo che non si può chiedere a un popolo: basta, dimentica, gira pagina… Il lavoro sia per l’individuo che per la società è lo stesso.
Porto come esempio il lavoro fatto con le donne che hanno subito violenza. È doloroso il solo ricordare. L’ascolto di una testimonianza è ogni volta un lavoro grande per guadagnare fiducia perché una donna violentata normalmente non parla, c’è la vergogna. È una vergogna che la imprigiona nel silenzio. Occorre andare verso di lei con disponibilità all’ascolto, alla percezione di tutti i segni che ti offre e, nello stesso tempo, fare in modo che lei capisca che tu sei una donna che condivide, prende parte al suo dolore per farne qualche cosa, per renderle giustizia. È necessario che lei capisca questo passaggio, che ad ascoltarla è una donna che può trasformare realmente il suo dolore in qualche cosa, e che può aiutarla a superare l’ostacolo che la blocca… allora si confida. E spesso è una confessione. Non è una testimonianza, è spesso una confessione nella quale io ho un contatto fisico. Nella maggior parte dei casi, nel mio incontro con le ragazze c’è un rapporto fisico: le prendo tra le braccia e dunque io raccolgo le loro parole il più vicino possibile al mio corpo, nelle mie orecchie. E, mentre parla, la donna rivive la situazione. Ce ne sono alcune che raccontano come se non parlassero di se stesse, come se parlassero di un film, completamente estranee; ce ne sono alcune che si mettono a rivivere l’esperienza e mentre parlano io stessa la vivo. Perché sono una donna sensibile alla loro sofferenza, ma anche perché in me c’è la rabbia… La rabbia è qualcosa che ha impregnato il mio essere. E questo però è un rischio per la mia salute mentale. Il lavoro è stato molto duro, molto pesante. Che cosa mi ha salvata dalla follia? Mi ha salvata analizzare l’atto. La violenza sui corpi delle donne è un atto che ha tanti significati: politico, teologico… io sono andata alla ricerca di una interpretazione. Ho raccolto le testimonianze, ho lavorato con un teologo per capire, decifrare il linguaggio di questa violenza, abbiamo cercato i documenti e poi mi sono data da fare per restituire tutto questo alla società. A salvarmi è stata la parola; il fatto di poter parlare con i documenti, di poter testimoniare a nome loro, delle donne che hanno patito la violenza dello stupro, ovviamente proteggendo la loro identità. Questo mi ha permesso di costruire, lasciandomi coinvolgere personalmente, un movimento per la denuncia della violenza sessuale, di rendere omaggio a queste donne, di restituire ad esse la loro dignità con il rispetto del loro dolore. Nello stesso tempo questa azione ha posto un inquietante interrogativo a tutta la società, perché è risultato chiaro, e l’ho voluto dire, che quando una
giovane è violentata tutta la società è responsabile di questa violenza. Se un fratello o un padre o una madre dicono a una sorella o alla figlia: nasconditi altrimenti ti sciuperai oppure se, veden-dola in strada, le chiedono: cosa fai là, come se dovesse vergognarsi, rivelano e rafforzano i mille condizionamenti di una società violenta contro le donne. Sono gli stessi che portano i terroristi a questa forma di parossismo che è lo stupro. In una società dove non c’è rispetto per la donna c’è il rischio che le donne vengano colpite dalla violenza. Queste testimonianze delle donne sulla violenza sessuale hanno aiutato me a interpellare la società su qualcosa di molto grave e scioccante, ma soprattutto a scioccane la gente dicendo (questo l’ho fatto in una trasmissione televisiva): voi siete tutti responsabili degli stupri di queste donne. È grave dire così, dire che tutte le famiglie sono responsabili, in particolare i padri, i fratelli, le madri che hanno fatto in modo che le loro figlie si sentissero eternamente colpevoli e temessero la vergogna per il solo fatto che sono delle ragazze. Le testimonianze delle ragazze con le quali ho lavorato provano, infatti, che per le donne non c’è altra possibilità: o si è madri o si è puttane; non puoi essere altro.
Lavorare con donne violentate è un dolore psicologico, fisico. Aveva senso farlo, ma ad un certo punto ci si accorge che non se ne può più… Se non c’è un lavoro di parola si rischia troppo.
Abbiamo assorbito tutto. Chi ha creato, come noi, questi momenti di solidarietà, si trova con problemi di sonno, d’angoscia, angosce terribili… Ci sono malattie che si sono manifestate in questi ultimi anni: malattie di cuore, diabete, perdita di memoria. Nessuna di noi ha pensato di cercare un sostegno, non è nella nostra cultura. La nostra terapia è stato ed è reagire, agire rifiutando una cultura di morte.

 

*Zazi Sadou, nel suo contributo al Seminario Verso un sapere del sentire, La paura, un segno forte del presente (Università delle donne di Brescia, aprile 2000), ricordava gli inizi della loro azione collettiva nel clima di terrore:
“Nel gennaio del 1995, era la vigilia del Ramadan in Algeria. Una bomba di cento chilogrammi di esplosivo , il T.N.T., esplose nel centro della capitale. Ci furono circa cento morti, centinaia di feriti. È esplosa al momento del passaggio di un autobus strapieno, diretto verso un quartiere popolare d’Algeri alle tre del pomeriggio, quando le persone erano uscite per fare le compere della vigilia del Ramadan. Ho sentito questa esplosione dal posto in cui ero con alcuni amici. Siamo andati sul posto immediatamente, appena avuta la notizia. È l’orrore, quando si arriva nel momento in cui ci sono pezzi di corpi da raccogliere. È assolutamente orribile da spiegare. Bisognava fare qualcosa: questo andava oltre i limiti personali. Avrei potuto mettermi a raccogliere pezzi di corpi… occorreva fare qualcosa che rompesse il cerchio della paura, lo sapevamo. Lo sapevo che se pubblicamente non avessimo fatto un’azione spettacolare per lanciare un messaggio alla società da un lato e, dall’altro, ai terroristi che hanno rivendicato l’attentato (uno dei capi ha fatto una dichiarazione dagli Stati Uniti) per dire loro che noi non cederemo, che la società non cederà al terrore, noi avremmo cominciato a perdere la partita. E così abbiamo deciso quello stesso giorno di chiamare le donne a una manifestazione sul luogo dell’attentato. Abbiamo scritto un comunicato che è uscito subito sui giornali. Abbiamo cominciato a telefonare alle persone. Non avevamo l’autoriz-zazione della polizia, ci sono state anche pressioni per impedirla, ma noi eravamo così convinte che si dovesse fare questa manifestazione che in meno di ventiquattr’ore centinaia di donne si sono presentate sul luogo dell’attentato. Eravamo sicure che ci sarebbero state, soprattutto le donne. Sul luogo dell’attentato restava un cratere di decine di metri, il sangue era ancora dappertutto, tutti i vetri della strada erano esplosi. E loro sono venute con delle candele e le hanno messe tutt’intorno.
Malgrado questo sentimento di paura, c’era stato qualcosa. E questa manifestazione ebbe un’eco straordinaria in tutta la società. L’eco fu importantissima sul piano psicologico come sul piano politico, perché fu la dimostrazione che ci sono delle algerine – per la maggior parte erano venute donne – che dicevano no, che esprimevano un rifiuto, e che questa resistenza aveva il senso di rifiutare uno stato totalita-rio sotto la copertura della religione”.

**La storia della Gioconda e del cinese SiYa U è contenuta in un testo di Nazim Hikmet [n.d.r.]

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