10 Maggio 2014
il manifesto

Un eccidio che parla al presente

di Alessandra Pigliaru

 

Salone del libro. La ricostruzione dell’uccisione delle sorelle Porro a Andria nel 1946 da parte dei braccianti in lotta. Oggi il libro sarà presentato al Salone del libro

Il con­flitto sociale tra brac­cianti e agrari che imper­versò in Puglia negli anni Qua­ranta fu san­gui­noso e deva­stante. In par­ti­co­lare, i fatti acca­duti dal ’43 al ’48 assun­sero i tratti di una vera e pro­pria guerra civile che inte­res­sava varia­mente tutto il Sud. Grave povertà, disoc­cu­pa­zione irri­me­dia­bile e smar­ri­mento poli­tico, erano i tratti che hanno distinto le vite di chi, brac­ciante o reduce, abi­tava quelle terre arse dall’ignavia e dall’abbandono. Guar­dati dalla mia fame (Not­te­tempo, pp. 207, euro 15), il recente libro scritto a quat­tro mani da Luciana Castel­lina e Milena Agus, indaga la sto­ria dram­ma­tica di que­gli anni, con­cen­tran­dosi su una vicenda misco­no­sciuta: il lin­ciag­gio delle sorelle Porro da parte di un cen­ti­naio di per­sone, uomini e donne, riu­niti nella piazza del Muni­ci­pio di Andria il 7 marzo 1946.

Un’ordinaria quo­ti­dia­nità

Quel pome­rig­gio, dopo gior­nate con­vulse e di trat­ta­tive sin­da­cali dif­fi­cili, si sarebbe dovuta festeg­giare la tre­gua frutto di una media­zione tra brac­cianti e agrari. Per que­sto motivo Giu­seppe Di Vit­to­rio, brac­ciante di Ceri­gnola diven­tato segre­ta­rio della Cgil, avrebbe dovuto tenere un comi­zio pro­prio nella piazza cit­ta­dina. D’improvviso, uno sparo rivolto verso la piazza desta l’attenzione della folla. Appa­ren­te­mente non sem­brano esserci dubbi: pro­viene dal palazzo dei Porro, una ricca fami­glia di agrari per­qui­siti dai brac­cianti pro­prio un paio di giorni prima alla ricerca di armi. Men­tre Milena Agus rac­conta, tra realtà e imma­gi­na­zione, la vicenda di Luisa, Vin­cenza, Ste­fa­nia e Caro­lina Porro, Luciana Castel­lina inqua­dra il fatto nel con­te­sto storico-politico a loro con­tem­po­ra­neo. Si dipana così un libro note­vole, a due voci e con altret­tanti regi­stri: nar­ra­tivo e sag­gi­stico. Si fa la cono­scenza delle quat­tro sorelle attra­verso le visite di un’amica inquieta che le osserva e le rende vive. Così come, alla fine della let­tura, appa­ri­ranno più vicine le altre esi­stenze, quelle dei senza nome di tante e tanti brac­cianti rastrel­lati, pro­ces­sati e poi con­dan­nati nono­stante fosse arduo indi­care un’unica respon­sa­bi­lità penale.

Quelli descritti nel libro sono dun­que due punti di vista in cui le autrici, come sem­pre sapienti e pre­cise, si misu­rano con una vicenda che di esatto non ha pro­prio niente tranne la fame. Una fame ori­gi­na­ria di giu­sti­zia e di libertà che deborda nel suo con­tra­rio, per­cor­rendo non solo i fatti di Andria ma i secoli e la sto­ria che si tin­gono di san­gue. Che sia quello degli oppressi e degli oppres­sori cam­bia la qua­lità dell’efferatezza? Forse no. Quelle sorelle così bar­ba­ra­mente tru­ci­date, per esem­pio, ave­vano come unica colpa l’inconsapevolezza che le ren­deva avulse da ciò che le cir­con­dava. C’è chi giura che lo sparo pro­ve­nisse pro­prio dalla loro abi­ta­zione, sep­pure sia dif­fi­cile cre­derlo visto che le per­qui­si­zioni dei giorni pre­ce­denti non ave­vano riscon­trato nes­sun arse­nale né tan­to­meno sog­getti pericolosi.

Luisa e Caro­lina, le due che soc­com­bono, così come Ste­fa­nia e Vin­cenza, soprav­vis­sute alla vio­lenza, tra­scor­re­vano la loro quo­ti­dia­nità tra fac­cende dome­sti­che e pas­sa­tempi tra­scu­ra­bili dalla grande sto­ria. Rica­ma­vano, con­ver­sa­vano e si occu­pa­vano solo di una vita, la loro, faci­li­tata dall’inerzia del pro­prio sta­tus di agra­rie. Del resto poco si cura­vano, almeno così sem­bra. La folla infe­ro­cita le sce­glie come vit­time sacri­fi­cali di uno scon­tro al quale erano estra­nee. La loro indif­fe­renza si mescola alla man­canza di corag­gio ed è motivo di costanti con­fronti con l’amica che va a tro­varle, anche quando «non sapeva dove andarsi a cac­ciare. In un altro mondo tutto diverso. Ecco dove voleva andare». Ma un mondo diverso non esi­steva, era lì inchio­dato tra la sazietà e la vora­cità degli uni così come degli altri. «È la fame che si fa vio­lenza e chiede ven­detta». La richie­sta appare tut­ta­via più ver­ti­cale di così. Il pasto negato è un occhio per occhio in cui ci si legit­tima a dige­rire la pro­pria col­lera con il far­maco della ven­detta; con­fi­gu­rando una furia dif­fi­cile da ana­liz­zare se non a conti fatti.

Inno­centi o colpevoli?

L’operazione messa in essere da Castel­lina e Agus appare ancor più inte­res­sante, pro­prio per­ché non offre giu­dizi o per­doni bensì la pos­si­bi­lità di sezio­nare un con­flitto sociale imme­di­ca­bile chie­den­doci di essere all’altezza, di poterne stare al cospetto. L’altro ele­mento che emerge è cer­ta­mente l’opportunità di ascol­tare per la prima volta le voci di chi è stato rima­sti­cato dalla sto­ria, sia nella piazza che nei palazzi, tanto più che gli stessi gior­nali di quei giorni non die­dero alcun risalto all’accaduto. Un effetto col­la­te­rale come tanti altri nella car­ne­fi­cina di quei mesi? Allora non si tro­ve­ranno reto­ri­che sulla non-violenza né sull’annoso dua­li­smo tra inno­centi e col­pe­voli. Il con­flitto resta aperto invece e con grande mae­stria sia Castel­lina che Agus ne sanno pun­tel­lare l’incandescenza in una dop­pia trama, neces­sa­ria quanto complessa.

Alla fine della let­tura per­man­gono molte domande. Una tra tutte rie­cheg­gia nella mente: «Nella cata­strofe, se si vuole che il mondo stia in piedi, biso­gna avere la forza di rivol­tarlo come un guanto. Sì o no?» Certo, se però l’unico modo di darsi giu­sti­zia signi­fica vio­lenza e distru­zione dell’altro da sé ver­rebbe da chie­dersi con chi si intenda abi­tarlo il mondo. A que­sto punto è utile ritor­nare sulle parole del poeta pale­sti­nese Mah­moud Dar­wish: «Guardati…/ Guardati/ Dalla mia fame/ E dalla mia ira». Luciana Castel­lina e Milena Agus l’hanno affron­tata con coraggio.

 

(il manifesto, 10 maggio 2014)

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