25 Giugno 2022
#VD3

Una furia con pensiero

di Monica Benedetti


Insegno da quindici anni nel Liceo che ho frequentato da ragazza; per questo, e per molti altri motivi, è un luogo che abito con passione e con convinzione. È una scuola che ha un Dirigente Scolastico (DS) che non si meriterebbe affatto: un maschio prepotente e confuso, spaventato ma protervo, che cerca di coprire le proprie incapacità esercitando il potere di cui dispone in modo arbitrario, eccessivo e, quel che è peggio, stupido.

Per anni ho visto colleghe e colleghi chiedere il trasferimento, gettando la spugna dopo angherie o conflitti settoriali sulle questioni più varie. La motivazione della “resa” era più o meno sempre la stessa: qui, con questo tizio, non c’è niente da fare. Qui non si riesce a cambiare nulla. Il mondo è grande: da un’altra parte potrò finalmente fare bene il mio lavoro.

Ecco, il mondo sarà pure grande e non biasimo quelle/i che approfittano di tale grandezza; tuttavia questa scuola è il mio mondo almeno finché ci sto, quindi per me il trasferimento non è mai stata un’opzione contemplabile. Per me, semmai, se ne deve andare il DS. Anch’io negli ultimi anni ho avuto con lui vari scontri, che mi hanno dato estrema visibilità tra le colleghe/i. Mi ha vista perfino lui, che ha imparato a temermi. L’origine della sua paura è buffa nella sua semplicità: una donna ribelle è una mezza pazza, ma le pazze, si sa, sono imprevedibili, quindi meglio non pestare loro i piedi. Finora infatti me l’ero (se l’era) cavata più o meno così: mi ha tolto ogni incarico di coordinamento, non mi ha mai coinvolta in nessuna commissione o gruppo di lavoro, quando non poteva evitarlo ha accolto ogni mia proposta facendo buon viso a cattivo gioco, usando la vecchia prassi del vigile quieto vivere, quella per intenderci che vigeva nella casa dei miei genitori, dalla quale sono scappata appena ho potuto, perché appunto non funziona per chi, come me, ha imparato la politica del desiderio.

Quest’anno però qualcosa è cambiato. Una collega che stimo mi ha convinta a candidarmi al Consiglio di Istituto, dove sono stata eletta, in lista con un collega, a furor di popolo. Gli organi rappresentativi saranno ormai svuotati di potere, ma ho sperimentato che si possono riempire velocemente di autorità. Già alle prime sedute il mio collega e io abbiamo cominciato a snocciolare irregolarità contabili (ricompense ai suoi fedelissimi/e camuffate da Progetti educativi): di fronte alla componente genitori e alunni/e ha dovuto giustificare e rettificare. Abbiamo anche avanzato alcune proposte a favore di studentesse e studenti in difficoltà economica, come il comodato d’uso dei libri di testo. La nostra è una scuola ricca, ma il DS non ha mai ritenuto di dover spendere soldi pubblici per gli “utenti” poveri. Che abbia fatto carriera anche grazie a quest’idea oggi così popolare?

Gli sarebbe ancora andata bene se, a novembre, la mia alunna F. (così la chiamerò, la mia ragazzina), di diciassette anni, non si fosse improvvisamente ammalata. La diagnosi è stata terribile: a causa di una malattia genetica rara, nel giro di tre settimane è diventata quasi cieca, senza alcuna possibilità di guarigione. In casi come questi, la scuola ha la facoltà di utilizzare dei fondi appositi, interni ma anche regionali, per attivare un progetto di “istruzione domiciliare”, opportunamente regolamentato. È una procedura che abbiamo usato spesso, generalmente per ragazze con disturbi alimentari o psicologici. Stavolta però il DS ha pensato di agire diversamente. I genitori di F., entrambi extracomunitari, gli hanno comunicato subito l’accaduto, chiedendo aiuto perché volevano che la loro figlia mantenesse, in qualsiasi modo possibile, un contatto con la scuola. Lui ha menato il can per l’aia: per giorni non ha risposto alle loro mail poi, un po’ alla don Abbondio, ha comunicato che per un progetto di istruzione domiciliare occorrevano “certe carte” (senza dire quali), infine ha proposto alla ragazza di ritirarsi da scuola, per pensare esclusivamente alla sua salute. Questo avvisando solo la coordinatrice di classe (una dei suoi vassalli/e) ma non le altre docenti della classe.

A questo punto la madre di F. mi ha telefonato e mi ha raccontato tutto. Era, ovviamente, disperata. Mi ha telefonato il 2 gennaio, domenica, giustificandosi con queste parole: “È domenica, ci sono le vacanze di Natale, ma F. mi ha detto che potevo farlo”. Le ho risposto che aveva fatto bene a dare retta a sua figlia.

Io sapevo che F. era malata, perché l’avevo già contattata quando mi ero accorta che non veniva più a scuola. Ascoltando il racconto di sua madre ho sentito la mia forza trasformarsi in furia, ma in una furia lucida, una “furia con pensiero”, un tutt’uno come una palla di fuoco da cui mi sono lasciata incendiare. Riprendiamoci anche i roghi: sono nostri!

Per cui mi sono data da fare, e la lotta è iniziata. Non la chiamo “guerra”, per ovvi motivi, ma nemmeno “conflitto”, perché “lotta” rende conto del fatto che mi ci sono calata anima, ma anche corpo: per settimane ho telefonato, scritto, inseguito tutti/e quelle che mi potevano aiutare a denunciare, smascherare, fermare, correggere, costringere a cacciare i soldi e le risorse necessari per poter permettere a F. di proseguire gli studi e mantenere i legami con i suoi compagni/e. Ho braccato il DS in Consiglio di Istituto, in Consiglio di Classe, nei corridoi; ho chiamato i sindacati, le rappresentanti di classe, le colleghe, la stampa. Durante una riunione, di fronte alle minacce del DS, mi sono messa perfino ad urlare, cosa che non faccio mai. Il corpo: è indispensabile nella lotta tanto quanto il pensiero e le parole.

A proposito di parole, poi. Bisogna lottare in lingua materna, come ho imparato da combattenti eccezionali: le mie zie analfabete, le contadine del Sud d’Italia nel dopoguerra (ce ne ha parlato Luciana Viviani in “Rosso antico”) e Angela Davis. Quindi, in un contesto istituzionale, non ho avuto paura di scrivere e di dire che per me non aveva alcun senso pontificare sull’educazione civica: quella per cui mi muovevo era una giustizia così alta che se non avessi speso tutte le mie energie per sostenere il desiderio della mia studentessa di restare a scuola, non avrei più avuto il coraggio di guardarmi nello specchio la mattina. Inutile scrivere sui documenti ufficiali che la scuola è una Comunità Educante: una comunità è tale se chi vi partecipa è disposto a considerare il problema del/la singolo/a un problema di tutti/e. Altrimenti è fuffa buona per riempire fogli bianchi e teste vuote.

Così, anche nei testi che ho spedito a organi o figure istituzionali (all’Ufficio Scolastico Provinciale, ai sindacati, al DS stesso, alla coordinatrice del dipartimento Inclusione), ho infilato parole come “esistenza, ragazza, amiche, bisogno, urgenza, desiderio, sogni, fiducia, amarezza, vulnerabilità, ascolto, coraggio, sono arrabbiata ma non ostile”.

Alcune mie colleghe della classe di F. mi hanno aiutata. Nessuna di loro è femminista, nessuna di loro è particolarmente combattiva, tuttavia mi stimano e hanno sentito che mi stavo schierando contro un’ingiustizia insopportabile e inaccettabile.

La matrice della forza femminile è materna. Questo lo so bene, ma detta così non sarei forse stata capita, eppure avevo bisogno che capissero bene quale forza mi animava, in modo da poter contare su di loro senza paura che, se il gioco si fosse fatto veramente duro, si tirassero indietro proprio quando sarebbe stato necessario restare unite. Quindi ho detto loro, fin da subito: sappiate che farò per F. quello che farei per mia figlia, né di più né di meno. Tanto per essere chiara. Nessuna ha mollato.

La forza nasce dall’azione, e se ne alimenta. Il potere è statico e sfrutta il tempo a proprio vantaggio. Per cui, durante la lotta, ho temuto di non farcela, per puro logoramento fisico. Per settimane ho dormito male, e poco perché, per non togliere tempo a mia figlia, mi sono ridotta a scrivere di notte, a telefonare mentre guidavo, a fare lezione stordita dalla stanchezza. Ma le relazioni che ho intessuto nel frattempo sono state il mio alimento e la mia amaca. Nei momenti di scoraggiamento, mi ripetevo come un mantra l’insegnamento di Alessandro, un mio giovane, carissimo amico: “Chi sceglie il potere rinuncia all’amore”. Il mio premio era, e sarebbe stato, l’amore reciproco tra F. e me, l’amore per la mia scuola e per la giustizia. Tanto mi doveva bastare.

Ci sono state anche colleghe che hanno ignorato i miei appelli, anzi, si sono schierate con il DS aiutandolo a dimostrare che la soluzione di mediazione poteva semmai consistere nel creare per F. un percorso di “sparizione facilitata”: promozione eventualmente garantita, ma senza un reale percorso di apprendimento e di cura. Lavoro con troppe donne il cui desiderio è tramortito. Ho però verificato che niente è più efficace per risvegliarlo quanto mostrare con godimento la vitalità del proprio. A chi mi chiedeva se non fossi stanca, o scoraggiata, rispondevo: “Sì, ma vi ricordo che la lotta è energetica!” e nel dirlo a loro, lo ripetevo a me stessa, constatando ogni volta quanto questo fosse profondamente vero.

Nella mia lotta mi hanno sostenuta alcuni uomini. Uno è Alessandro, di cui parlavo prima, l’altro è il collega eletto con me in Consiglio di Istituto, e alcuni amici. Ho smesso da tempo di stupirmi del fatto che ci siano donne che sostengono il simbolico del potere, sessista e classista; comincio invece a notare che sempre più uomini capiscono la matrice del mio agire, la apprezzano, la condividono e la sostengono. Sono uomini che, per varie ragioni e in momenti diversi della loro vita, hanno smesso di sentirsi parte del patriarcato. Hanno constatato cioè, più o meno come è successo a moltissime donne, che per uniformarsi all’identità prescritta come accettabile in quel simbolico, avrebbero dovuto abbracciare un’esistenza miserabile da tutti quei punti di vista che contano veramente.

Mi ha sollevata fare esperienza – mentre lottavo contro un uomo – della simpatia e dell’ammirazione di un altro tipo di uomo. Con quelli del primo tipo, come il mio DS, non credo sia possibile mediare, o perlomeno io non intendo farlo. Non sentono ragione: hanno fatto la loro scelta. Come dice Alessandro: non si può chiedere a un Creonte di non essere re, perché lui vuole essere re. Con quelli del secondo tipo bisogna invece riconoscersi ed allearsi: sono uomini che hanno riconosciuto (pur tra le mille contraddizioni e lacerazioni che ben conosciamo) l’assoluta preponderanza del materno nelle loro vite. Non vogliono pertanto essere dei re: vogliono essere uomini liberi.

La forza femminile agita è immediatamente riconoscibile, anche quando viene momentaneamente sconfitta: un bersaglio per gli uomini e le donne di potere, un’ispirazione per uomini e donne che credono che quello in cui viviamo non è l’unico, né tantomeno il migliore, dei mondi possibili.

Comunque alla fine ce l’abbiamo fatta, F. e io. Lei è stata promossa in quarta, e non certo per qualche sconto pietoso, ma perché siamo riuscite tutte/i, noi compagni/e di lotta, a metterla nelle condizioni di continuare a imparare. E io posso continuare a guardarmi allo specchio la mattina, dove vedo l’immagine di una donna non addomesticata né addomesticabile, esattamente quella che mi sento e che voglio continuare ad essere.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 25 giugno 2022)

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