20 Febbraio 2021
#VD3

Un’altra realtà nel territorio del potere


di Fulvia Bandoli


Penso che “presupporre la differenza” in ogni donna rappresenti una forzatura, con alcune serve aprire un conflitto. Lo dico sulla base della mia esperienza personale, perché prima dell’incontro con il femminismo non capivo né il senso della differenza, né quello della libertà femminile, né tantomeno riuscivo a far valere, prima di ogni altra, la mia relazione con altre donne. Credo che ancora oggi molte che stanno nei partiti e nelle varie istituzioni siano nella situazione nella quale mi trovavo io agli inizi del mio percorso politico. E con queste donne credo vada aperto un conflitto trasparente ma radicale. Conosco i partiti e conosco anche il potere. L’ho subito, esercitato, l’ho visto bloccare o accelerare processi e scelte. E so quanto possa sfigurare le persone. Ma da vari decenni, per fortuna, ho imparato a conoscere (e a farne la mia pratica politica) il potere che viene dalla conoscenza e dal sapere e che, come diceva Hannah Arendt, genera un poter fare e un poter dire, un agire collettivo e relazionale. Dopo i primi anni passati in una posizione subalterna ai maschi, anche se l’aver studiato molto mi consentiva di metterli all’angolo in molte discussioni, ho avuto la fortuna di incontrare, dentro il Pci, Franca Chiaromonte e con lei il femminismo, e soprattutto di sperimentare e di veder crescere la forza che deriva della relazione tra donne. Mi colpì molto quello che disse anni fa Luisa Muraro, parlando di Flannery O’Connor, al Grande Seminario di Diotima: «Lei con la sua splendida scrittura entrò nel territorio del diavolo per immettervi realtà e contendere significato alle parole». Ecco, io penso che una donna che decida di fare politica in qualsiasi sede e a qualsiasi livello debba sapere che sta entrando nel “territorio del diavolo” e che può entrare solo se immette in quel territorio la sua realtà e se contende significato al “potere costituito” basandosi sulla forza che può venirle solo dalle relazioni con altre. Se entra da sola, o in fila dietro a un uomo, sceglie di riprodurre la sua subalternità. Torna in questi giorni, a proposito della formazione del nuovo governo Draghi, una discussione oramai stantia. Che le donne sono poche (solo 8 su 23), che la Sinistra non le ha messe, che bisognerebbe applicare davvero le “quote rosa”, che la colpa sarebbe delle correnti dirette dai maschi, e via inanellando tutte le scuse possibili. Anche i maschi naturalmente si esercitano sul tema. Michele Serra scrive: «forse per mantenere la differenza sarebbe bene per le donne tenersi lontane dal potere». Una frase che, detta da un uomo, si commenta da sola. Non credo alle sedi paritarie e alle quote rosa. Il femminismo mi ha insegnato che va aperto un conflitto di merito e radicale con gli uomini sul loro ruolo e purtroppo anche con le donne che li aiutano a perpetuarlo. Ho sempre pensato, fin da giovanissima, che una donna possa fare politica meglio di un uomo. L’esempio di come la facesse meglio mia madre, rispetto a mio padre, fu per me illuminante. Dovessi dire perché scelsi la politica invece dell’insegnamento direi che lo feci perché nel ’68/69 era piuttosto bella, ma soprattutto per dimostrare a me stessa, e a mio padre in particolare, che potevo far politica meglio di lui. E tirando le somme del mio lavoro credo di esserci riuscita. Con buoni risultati concreti nelle materie che ho affrontato e nelle leggi che ho contribuito a fare. E con più felicità e passione, mentre in lui vedevo quasi solo il dolore del sacrificio, della disciplina e della competizione. E questo “meglio di un uomo” è stato frutto quasi per intero delle mie significative relazioni con molte donne e con il femminismo, dentro e fuori dal partito nel quale ho lavorato. Magari vi chiederete se io non abbia mai fatto parte di una corrente nel mio partito. Sì, ho fatto parte della corrente di Pietro Ingrao, in quegli anni era difficile non farne parte. Ma le relazioni con le altre donne del mio partito, o con quelle che stavano nelle associazioni e nei movimenti ecologisti territoriali che frequentavo (quelle di Vicenza, quelle della Terra dei Fuochi, della Val di Susa) venivano prima della mia corrente. Io e Franca Chiaromonte, ad esempio, trent’anni fa abbiamo fatto una scelta e una scommessa consapevole l’una sull’altra: lei era femminista e aveva una grande credibilità nel movimento delle donne, io non lo ero ma avevo una più forza politica di lei dentro il partito. Politicamente non eravamo neppure sulle stesse posizioni, lei era più moderata e riformista, io più estremista, per usare il linguaggio di allora. Ma questo non fu mai un impedimento. Per quanto potessimo essere distanti su una singola scelta politica, la nostra relazione è sempre stata più forte di ogni posizione particolare. Ci siamo confrontate per moltissimi anni, e la nostra relazione è stata un lievito per altre donne. Il fatto che né io né lei “rispondessimo” ai maschi ma ci affidassimo prima di tutto l’una all’altra mostrava una pratica molto diversa da quelle solite e soprattutto mostrava forza e libertà femminili. Molte volte sono andata in conflitto proprio perché sostenevo una donna di un’altra corrente e la mia relazione primaria era con lei. Ma se acquisisci piena consapevolezza che la tua libertà risiede nella relazione con le altre donne quella resta per sempre la tua misura. E se questa misura diventa la pratica di tante donne immette un’altra realtà anche nel territorio del potere e dei partiti e comincia a risignificarli. Credo però che nei partiti del secolo scorso, pur con tutti i difetti enormi che non intendo negare, ci fosse almeno uno spazio. Oggi, dovunque mi giri, non vedo partiti, ma un panorama politico scarnificato, fatto di leader modesti sostenuti dalle rispettive tifoserie.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 20 febbraio 2021)

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