25 Aprile 2020
#VD3

Un’impunità dicibile


di Lola Santos Fernández


In questi giorni abbiamo attraversato diverse fasi: paura, incredulità, emozione per le novità del momento, grande dolore, bisogno e piacere di riposare ma anche di cacciare fuori le nostre antiche e salde competenze di governo della casa, cercando pure di renderla compatibile con il lavoro e con i giochi da inventare. Finché non si è stabilita una sorta di normalità all’interno di questa situazione anomala. Abbiamo allora capito, come si dice spesso in questi giorni, le cose essenziali della vita ma anche a dare priorità agli impegni di lavoro e ai compiti di scuola delle nostre figlie, cioè a quello che è conciliabile con il primum vivere e i suoi imprevisti, rinviando, o ignorando quelli che non lo sono.

Lo facciamo con disinvoltura e autorità e cresce in noi un senso di agio, rafforzato dalla materialità delle mura delle nostre case (quelle liberate da disordini monumentali), dove siamo le signore del gioco, stiamo al sicuro e nessuno può entrare a chiederci il tornaconto delle nostre scelte comunicate talvolta in modo brusco, anche se nel limite della cortesia, come direbbe Jane Austen ma anche mia madre.

Una sorta di “impunità” sta alleggerendo molto le mie scelte che, in un momento di emergenza, devono essere, più che mai, quelle giuste. Ma allo stesso tempo l’emergenza rende superflue le conseguenze di un eventuale errore, se non è così grave da mettere a repentaglio l’integrità fisica nostra e dei nostri cari. Possiamo sperimentare, inventare, azzardare. Seguiamo il nostro sentire, senza le solite interferenze. Ci ossigeniamo come il cielo, la terra e i mari. Siamo più centrate.

Provo un forte senso di immunità/impunità che si è rafforzato dalle condizioni straordinarie di queste giornate murate* ma che mi piacerebbe normalizzare, portarmelo addosso, renderlo dicibile. Penso allora a quanto sarebbero libere le donne nella vita, e in particolare nella sfera pubblica, se seguendo il loro senso di giustizia fossero impuni rispetto alla legge e al giudizio maschile. È vero che in tante non concediamo più credito al diritto e che chi ci legittima ad agire è un’altra donna perché accettiamo di sottoporci a una misura giudicatrice femminile, ma il diritto non per questo smette di giudicarci e ci sottrae delle energie che potremmo impiegare meglio. Quanto riuscirebbero a risolvere le donne sgombrate dai calcoli e dal timore di soffrire una sanzione che, tra l’altro, non è stata pensata da loro? Trovo in questi giorni una possibile riposta in un’asimmetrica applicazione del diritto che tenga conto della diversa partecipazione dei due sessi nella sua formulazione e significazione: diversità e conseguente sessuazione del diritto che conosciamo bene dal Non credere di avere diritti, al “Sottosopra oro”, Un filo di felicità e alla Politica del desiderio (di Lia Cigarini). In questi testi abbiamo ricevuto spunti brillanti sui vuoti nel diritto e, forse, anche sui vuoti nella sua dimensione punitiva.

Ricordo che tanti anni fa, Luisa Muraro venne a Siena a parlare di uno dei suoi libri, Al mercato della felicità, credo. Le chiesi come si può cambiare il diritto. Cominciavo all’epoca a incarnare alcune pratiche politiche che le donne stavano da tempo mettendo in gioco nei luoghi del diritto. La sua risposta fu il racconto di una sentenza di un tribunale degli Stati Uniti che non aveva applicato la sanzione prevista per l’omicidio a una donna che aveva ammazzato il marito che la picchiava, violentava e maltrattava da anni. Oltre alla eventuale legittima difesa, alcune donne e alcuni uomini sentiamo nel nostro profondo che una differente applicazione della sanzione non è altro che la giusta riparazione che le donne si meritano.

Mettiamola così: se la parola impunità significa assenza di punizione prevista dalla legge, tante volte le donne dovrebbero avere uno sconto della pena, non pensata da loro (e ancora oggi, a volte, contro di loro). Anche perché le nostre punizioni sarebbero altre, forse anche più rigorose, in quanto più attente alla realtà. Mi viene in mente a tal proposito la sentenza della giudice Paola di Nicola che in un caso di prostituzione minorile, obbligava il prostitutore a comprare testi femministi, affinché li leggesse la giovane che era stata prostituita.

Fin quando il diritto non assomiglierà di più al (rigoroso) ordine simbolico della madre, nel caso in cui una donna non osservi le leggi del padre dovrebbe avere una sorta di presunzione di impunità: scardinare la norma senza grosse conseguenze. Io stessa sento che quando le donne non seguono le regole previste in materia, ad esempio, di tempi di lavoro, svanisce la mia critica, il giudizio si ammorbidisce e mi ricordo allora il perché. So che noi donne abbiamo un’altra esperienza, un’altra misura, che fa fatica a modificare il diritto del lavoro e questo mi basta e avanza. Così, mi dico, quando arriviamo in ritardo al lavoro perché i tempi della vita, della cura, degli affetti – i tempi del primum vivere – non combaciano con i tempi della produzione, non dovremmo essere costrette a fare salti mortali per ottenere l’indulgenza del diritto. Osservo con piacere che alcune donne avvocate e giudici stanno praticando questa sorta di rilassamento punitivo sessuato. Una recente ordinanza del 22 ottobre 2019 del Tribunale di Firenze tiene conto di questa prospettiva, dichiarando illegittime alcune regole che sanzionano chi arriva in ritardo al lavoro. Queste norme, dice la sentenza, mettono in una situazione di particolare svantaggio le madri (anche i padri, ma soprattutto le madri, sottolinea la giudice) rispetto a lavoratori e lavoratrici senza figli o con figli già grandi, che non devono affrontare gli imprevisti collegati ai tempi e ritmi biologici dei bambini piccoli in età scolare, che si integrano piano piano nella vita comunitaria. Il caso venne sollevato da una dipendente dell’Ispettorato del Lavoro di Firenze che era stata sottoposta a procedimento disciplinare a causa di diversi ritardi al lavoro dovuti a una banale ma ricorrente malattia di sua figlia di tre anni. Tale situazione costringeva la madre, separata dal padre, a trovare e improvvisare delle soluzioni per far fronte alle emergenze nel momento in cui si presentavano e che mal si conciliavano con un orario di lavoro rigido, o adattabile con vincoli eccessivamente gravosi, come risulteranno quelli introdotti con gli ordini di servizio dell’Ispettorato. Tali disposizioni sono state ritenute dal Tribunale di Firenze contrarie ai tempi morbidi dell’integrazione dei bambini piccoli alla scuola e ha ordinato all’Ispettorato del Lavoro di Firenze la cessazione del comportamento pregiudizievole tramite la rimozione dell’efficacia giuridica delle norme in discussione che negano l’evidente necessità di tempi diversi. In questo caso si è riuscito a concedere questo tempo di una prima relazione con il mondo esteriore, ammorbidendo la barriera simbolica (Clara Jourdan) rappresentata dalla norma giuridica.

In questo periodo in cui tanti diritti vengono derogati – siamo chiuse senza aver commesso nessun reato! – l’impunità inaspettata prende corpo e ci adagiamo per narrarla dove è più necessaria.

Forse in questi giorni di sospensione è possibile provare a prendere una Pausa per rincorsa, dal titolo di un bel libro di Anna Santoro, che usiamo spesso ricordare io e mio marito in questo periodo in cui stiamo parlando con maggiore precisione. Anche le parole si ossigenano.

Con la fine del patriarcato ci siamo tolte gran parte dei timori ma i calcoli li dobbiamo ancora fare. E li facciamo. Come ci insegnano le nostre nonne. Penso alla mia, mi abuela Paca, che riusciva a costruirsi la cornice formale e sociale necessaria per poter mettere in atto la propria libertà negli anni del patriarcato vigoroso. Lei restò vedova giovane con due bambine di otto anni e decise di andare a vivere con loro a casa dei suoi genitori. Adorava più di tutto le passeggiate solitarie per il suo paese. Per poterle fare impunemente, si inventava delle visite alle sorelle, cugine e amiche, che duravano pochi minuti ma che a lei davano la tranquillità di spirito necessario per potersi godere pienamente la luce e il profumo del suo adorato paese senza che nessuno la giudicasse, riappropriandosi così della narrazione. Questo suo insegnamento – che ho portato al presente grazie a Luciana Tavernini e Marina Santini, le mie maestre del corso del master di Duoda di Storia vivente – mi accompagna molto in questi giorni strani in cui faccio lezione a distanza alle mie studentesse della Facoltà di giurisprudenza di Siena. Leggo loro con piacere e felicità le parole di Lia Cigarini, María-Milagros Rivera Garretas, Silvia Niccolai, Simone Weil, del Sottosopra Immagina che il lavoro, e tante altre, nell’ambito del mio corso Derecho, trabajo y diferencia sexual. Provo la leggerezza di spirito della passeggiata profumata nell’avvicinare le future giuriste alla genealogia femminile nel diritto. Come semi che germineranno in un terreno che oggi, quando tutto sembra crollare, emerge più ossigenato e fertile e dove la nostra origine ci appare ben radicata nella realtà.


(*)

Murata nel Cielo!

Che cella!

Che ogni cattività sia,

Tu, dolcissima dell’Universo,

Come quella che ti rapì a te!


(poesia 1628 di Emily Dickinson – tradotta in italiano da me – raccolta nel libro di María-Milagros Rivera, Emily Dickinson, edizione bilingue, Sabina editorial, Madrid, 2016, p. 57; con questa poesia Emily ricorda le murate).


(www.libreriadelledonne.it, #VD3, 25 aprile 2020)

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