7 Marzo 2014

Parità! Uno studio di Joan W. Scott sul movimento del 50/50 in Francia


a cura di Luisa Muraro

da Via Dogana n. 82, settembre 2007


Il 6 giugno 2000 la gazzetta ufficiale del Parlamento francese ha pubblicato una legge da poco approvata a larga maggioranza per la ripartizione a 50/50 tra donne e uomini, delle candidature nelle elezioni europee, nazionali e locali. Si concludeva così la lotta condotta in Francia negli anni novanta dal movimento per la parità, iniziato con un libro-manifesto intitolato Au pouvoir citoyennes! Liberté, égalité, parité! La legge del 6 giugno non rispondeva agli intenti delle “paritariste”, che volevano dalla legge la ripartizione rigorosamente paritaria degli eletti/elette, così da superare i problemi posti dalla differenza sessuale traducendola, con una deliberata astrazione, nella mera dualità anatomica. Nel 2005 Joan W. Scott, studiosa di spicco nel campo dei Gender studies, ha pubblicato un saggio, apparso negli Usa e in Francia, Parité. L’universel et la différence des sexes (tr. di Claude Rivière, ed. Albin Michel) che narra le idee e le vicende del movimento di cui sottolinea l’originalità, indaga la complessità e valuta i risultati, con intelligenza e precisione. Unica critica che mi sento di farle, è che nella sua ricostruzione ella sorvola sulla mancata distinzione fra assenza, da una parte,ed esclusione o discriminazione, dall’altra, mancanza riscontrabile in questo come negli altri movimenti per la parità, i quali tendono a interpretare ogni assenza di donne come l’effetto di una discriminazione, senza ulteriori indagini e quasi senza concepire l’idea che possa trattarsi invece una libera espressione di sé. I passi che riportiamo, tradotti dal francese, ringraziando l’autrice e l’editore, sono solo indicativi di un’investigazione che si estende per più di 250 pagine.

Il principio ispiratore (da pp. 92-97)

Contrariamente a quello che altre femministe avevano chiesto qualche anno prima, le “paritariste” non hanno domandato che si adotti una legge antidiscriminatoria (o antisessista), le leggi di questo tipo non essendo sufficienti ad assicurare l’uguaglianza e dando invece per scontato l’esistenza di categorie definite dalla biologia o dalla cultura. Seguendo in ciò un’argomentazione sviluppata da femministe della Comunità europea, le “paritariste” hanno ritenuto che le leggi antidiscriminatorie sono imperfette e che ristabiliscono le differenze che bisogna eliminare. Meglio proporre che il principio fondamentale del diritto all’uguaglianza venga enunciato e poi sia messo in pratica dalla legge. Lo scopo cercato non era l’uguaglianza tra donne e uomini, una formulazione che lascia che gli uomini siano il riferimento su cui misurare le donne. Bisogna che sia riconosciuta l’uguaglianza di donne e uomini, formula che consente di porre l’equivalenza degli essere umani a fondamento dell’organizzazione sociale. Lo scopo della parità era così di sopprimere le premesse misogine sulle quali si è costruito la Stato repubblicano. (…) Con il progetto paritario si poteva, finalmente, creare un posto per le donne nella sfera pubblica e democratizzare la politica senza fare riferimento a considerazioni extrapolitiche che per tanto tempo sono servite a giustificare la disuguaglianza. Insistendo sull’uguaglianza di donne e uomini, e riconoscendo che l’individuo è sessuato, le “paritariste” si sono applicate a “desessualizzare” l’aggregato d’individui che formano il corpo politico della nazione. Riconoscere la sessuazione degli individui astratti, allo scopo di sopprimere il sesso come criterio pertinente per esercitare la rappresentanza, solo in apparenza costituisce una contraddizione. È questa riconcettualizzazione che è servita da fondamento teorico alla rivendicazione avanzata dal movimento per la parità. “La nostra battaglia per la parità si situa in un’altra prospettiva, quella dell’uguaglianza dei sessi fondata non su una differenza glorificata, non su una differenza negata, ma su una differenza oltrepassata, riconosciuta per meglio essere estromessa là dove produce disuguaglianza” (Françoise Gaspard).

In questo ragionamento si richiede nulla meno dell’uguaglianza totale perché le donne accedano allo statuto d’individuo, e sfuggano ai limiti di un’identità categoriale. Rigettando le quote come insufficienti (in quanto non arrivano all’uguaglianza), fin dai primi scritti le “paritariste” hanno chiesto che si stabilisca, nella rappresentanza, una ripartizione di 50/50 dei posti da distribuire fra donne e uomini. Questo 50/50 non è una quota, ma rispecchia il fatto che, quali che siano per altri rispetti le loro qualità e attributi, gli individui appartengono sempre ad uno dei due sessi. (…)

L’uguaglianza dei sessi era il principio. Il mezzo per attuarlo doveva essere la legge perché essa soltanto poteva superare la resistenza degli uomini politici e dei partiti, così da ridefinire i termini operativi – simbolici e pratici – dello spazio politico. Ma prima che la legge facesse la sua opera, bisognava che fosse votata, il che voleva dire appellarsi agli eletti e all’opinione pubblica. L’appello lanciato in nome delle donne faceva di queste una categoria, allorché questo stesso appello mirava a spogliare il sesso delle sue caratteristiche sociali. Con la parità, le donne diventavano semplicemente degli individui di sesso femminile, e delle rappresentanti capaci d’incarnare la nazione in virtù della loro individualità. Le architette della parità non hanno pensato che le donne rappresentino soltanto le donne, così come non hanno fatto credere che le elette avrebbero agito tutte allo stesso modo. Anzi, hanno detto il contrario: che le donne erano capaci quanto gli uomini di rappresentare la nazione, e che, nell’espressione delle loro opinioni e giudizi, avrebbero offerto altrettanta varietà che gli uomini. “Non si tratta affatto di far rappresentare le donne dalle donne, ma che le donne abbiano tante possibilità di accesso al prendere in mano il destino comune, quante gli uomini; di permettere alle donne di pensare il divenire globale della società e non soltanto i problemi degli asili; di fare che la società si riconosca in esse come nei loro pari di sesso maschile” (Giselle Donnard).

Questa concezione della parità è un esempio di ciò che Étienne Balibar ha chiamato “l’universalità ideale” (…). Questo era esattamente quello che domandava il movimento per la parità: introdurre un vero universalismo nel sistema politico francese, non mettendosi d’accordo per ignorare le differenze sociali (come fa l’universalismo fittizio), ma facendo della dualità anatomica il primo principio dell’individualismo astratto.

La legge del 6 giugno, in pratica (da pp. 240-243)

Se lo scopo delle “paritariste” era di eliminare ogni considerazione di sesso nella scelta dei rappresentanti, la conseguenza prima della legge di parità fu invece di evidenziarne l’impronta. In tal senso, la legge agisce come qualsiasi legge antidiscriminatoria o provvedimento di azione positiva, e punta i riflettori sulla o sulle differenze che hanno precisamente condotto all’esclusione. Le campagne elettorali seguite all’approvazione della legge hanno mostrato tutta la difficoltà di rimediare alla discriminazione – non c’è assolutamente modo di sfuggire all’evocazione della differenza e di non riprodurre quindi i termini di ciò che si vorrebbe correggere. Le candidate sono donne o persone che si occupano di politica?

Le donne possono veramente essere politiche? Sono differenti o identiche agli uomini politici? Sono queste alcune domande che si sono poste implicitamente (e talvolta esplicitamente) nel corso delle campagne elettorali.

Le donne che si sono presentate come candidate sono state prese in un doppio circolo vizioso, descritto molto bene da Marion Paoletti, iscritta al Partito socialista e sconfitta nelle legislative del 2002. L’affermazione della sua identità di donna (e di madre) ha rappresentato un vantaggio per guadagnare voti nel quadro della legge di parità, ha detto, ma non per far riconoscere la serietà del suo impegno negli ambienti del partito. Diversamente dai suoi colleghi maschi, che non si sono sentiti minimamente obbligati ad affermare la propria maschilità, “le donne in campagna elettorale nel 2002, si vedono tacitamente e collettivamente ingiungere di essere donne”. Ma per lei quest’ingiunzione ha avuto effetti contradditori: “Se bisogna essere donna, c’è il rischio di non essere politica”. Il vecchio problema dell’impossibilità di fare astrazione dalla differenza dei sessi, continuava a porsi. Mentre faceva campagna, la sua femminilità era una carta da giocare. Le hanno molto consigliato di truccarsi e di curare un look femminile. “Il tuo corpo è un’arma” le ha detto una collega. Ma, all’interno del partito, lo stesso comportamento diventa un difetto. (…) L’accento messo sulla sua identità in quanto donna poteva condurre alla naturalizzazione di tale identità, lei ritiene, e confermare gli stereotipi sociali confinandola nella dipendenza da uomini più potenti. Nel migliore dei casi, sottolinea Marion Paletti, la figura della donna politica è “ambigua”. Ma proprio perciò – noto io per inciso – essa perturba, almeno potenzialmente, gli stereotipi da cui vorrebbe tenersi distante. (…)

Al livello in cui siamo nella valutazione degli effetti della legge di parità, è l’indebolirsi della connessione tra maschilità e politica che ci conviene guardare da vicino. Questa legge ha introdotto della confusione, e della costernazione, nel campo politico. Vediamo così manifestarsi, in un certo numero di uomini, delle reazioni difensive davanti all’arrivo senza precedenti di donne nel “loro” dominio, reazioni che vanno dal ripiegare negli stereotipi al ricorso agli insulti fino al dispiegamento della forza bruta del potere al fine d’indebolire la legge o di sabotarne l’applicazione. Sul versante opposto, si assiste a prese di posizione, da parte di alcuni eletti (sono rari, tuttavia esistono) che rispecchiano esattamente la desimbolizzazione voluta dalle “paritariste”. Il sindaco di Rennes, per esempio, ha sottolineato che donne e uomini condividono molto delle stesse difficoltà e degli stessi punti di vista. “Io, ci tengo molto a stare all’ascolto… La donna non deve avere un dominio riservato. È cittadina, deve interessarsi di tutto. Io sono contro la strumentalizzazione. Si fa politica in quanto cittadini, tutto qui”.

(Altri articoli sulla questione del 50e50 Via Dogana n. 82, settembre 2007)

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