di Pietro Citati
Villette è il romanzo più bello di Charlotte Brontë: un libro drammatico, angoscioso, tenero, lirico, ma anche spiritosissimo, com?è spiritosa la protagonista, Lucy Snow. Vorrei parlarne a lungo. Mi limiterò a dire che il libro riposa su due intuizioni. Da un lato, la condizione di chi è abbandonato da Dio: o meglio, poiché una persona religiosa come Charlotte Brontë non pensava che si potesse essere abbandonati da Dio, perseguitata da quella forza oscura che la tradizione greca chiamava il Fato, e di cui la Brontë ignorava il rapporto con Dio. D?altro lato, la convinzione che solo le persone felici ? quelle che, per alcuni giorni o alcuni anni, anticipano in terra la felicità del paradiso ? sono benedette da Dio. «Sono perfettamente convinta ? dice Lucy ? che esistano alcuni esseri, nati e cresciuti in modo tale, dalla morbida culla fino alla tomba placida e tardiva, che nessuna sofferenza troppo grande si introduce nella loro sorte, e nessun fiume tempestoso incombe sul loro viaggio». Ma le persone felici non possono raccontare le storie delle persone felici: troppa luce accecherebbe. Il senso di Villette nasce quando una persona infelice, o perseguitata dal Fato, racconta con radiosa ammirazione la storia di due, o alcune, persone felici: così Lucy quando parla di Graham e di Paulina. Allora la bellezza di Villette è straordinaria: perché in questo, sopratutto, consiste la letteratura.
(Corriere della Sera, 28 gennaio 2014)