11 Febbraio 2021
#VD3

Vincoli, connessioni, relazioni – Anna Maria Piussi

Introduzione alla redazione aperta di ViaDogana3 – Vincoli, connessioni, relazioni, 7 febbraio 2021


di Anna Maria Piussi


Una crisi politica improvvisa ma non imprevista si è innestata su una pandemia improvvisa ma non imprevedibile. La crisi politica deflagrata negli ultimi giorni ha messo a nudo da un lato la debolezza, dall’altro l’arroganza della politica maschile, due facce della stessa medaglia di una caduta fallimentare non solo di classe politica, ma di sistema. La sera stessa dell’annuncio accorato del presidente della Repubblica, mi è capitato di vedere e ascoltare in una trasmissione televisiva l’intervento a caldo di Elsa Fornero e di condividerne le emozioni e il senso. La Fornero, partecipe delle politiche di austerità del governo Monti, non gode certo delle mie simpatie, sebbene ne ricordi le lagrime pubbliche e non come segno di debolezza femminile, al contrario, forse, di empatia per i destinatari di quelle misure. Ebbene, lei ha parlato della sua rabbia nei confrontidella “miseria politica di piccoli uomini con orizzonte e intelligenza limitati”, concludendo “non ci arrivano!” Ascoltandola ho pensato: nel profondo del loro sentire le donne sanno, capiscono e giudicano,peccato mettano a tacere la loro intelligenza e autorità quando sono al governo della cosa pubblica! Dunque non tutto è responsabilità degli uomini. Il mio pensiero successivo infatti è stato alle due ministre a cui Luisa Muraro ha rivolto la sua lettera invitandole a essere autonome rappresentanti di tutti i cittadini per un governo migliore, e a prendere coscienza di quanto il bene comune sia strettamente connesso alla libertà femminile, ma le due hanno preferito l’interesse di partito e la fedeltà a un capo cinico e narcisista, fautore di quella parità 50/50 che mortifica la libera autorità femminile.Il risultato ora è sotto gli occhi di tutti: come ha notato di recente Ida Dominijanni, una crisi di governo già in gestazione e latente si è attualizzata, e non sappiamo se sposterà l’asse decisionale a favore di logiche neoliberiste dando fiato alle destre e sottraendo terreno a una auspicata rifondazione delle sinistre su nuove coraggiose pratiche politiche e su nuove visioni della vita, della società e del mondo.


Nuove visioni di cui l’umanità e il pianeta hanno urgente bisogno, lontane dalle semplificazioni; quelle semplificazioni di un pensiero lineare che negano o trascurano le connessioni sindemiche della pandemia – e della salute della democrazia – con le ingiustizie economiche e sociali, l’impoverimento e il saccheggio delle risorse naturali, il vuoto ottimismo delle tecnocrazie.

A questo proposito, temo che queste ultime, le tecnocrazie insieme alla finanza, prendano sempre più posto nelle vite e nell’immaginario, lasciando ai margini, quasi fosse superflua, la politica come pensare e agire condiviso per un di più di vita, di gioia, di libertà, di desiderio non saturabile.


Un flash: Jeff Bezos, padrone tra l’altro di Amazon e di Blue Origin, e Elon Musk, fondatore tra molto altro di Tesla, Neuralink e SpaceX (quest’ultimo attivo negazionista della pandemia ma convinto sostenitore della salvezza tecnologica dell’umanità) sono, com’è noto, i due uomini più ricchi del mondo oltre a essere considerati gli imprenditori più creativi e,come tali, influencer molto presenti nella cultura di massa. Entrambi auspicano una vita multiplanetaria e prevedono il futuro dell’umanità lontano dal nostro pianeta (che evidentemente ai loro occhi non merita attenzione e cura) ma con due visioni filosoficamente diverse: secondo Musk, tra l’altro collaboratore della NASA, agenzia pubblica statunitense sempre più orientata alla delega ai privati, l’umanità, distrutta la Terra, a un certo puntodovrà rifugiarsi su altri pianeti, a partire da Marte, e allo scopo ha già lanciato mezzi e proposte per un imminente turismo spaziale.Per Bezos, invece,basterà trasferire le produzioni pesanti e l’estrazione di materie primesu Luna e asteroidi, costruendo, poi,città sospese nello spazio come la Stazione spaziale internazionale già in orbita da decenni, e la Terra rimarrà fruibile solo come parco naturale e luogo di vacanze da visitare di tanto in tanto. Sembrano assurdità, ma progetti e strutture sono già all’opera, ed è inutile negare il potere simbolico, oltre che finanziario e tecnologico, dei due. Abbiamo già avuto prova del prometeismo maschile in azione, con Trump, solo per stare ai nostri tempi. Ora un prometeismo di ricchi tecnofilisi presenta con il volto della salvezza e del progresso, di cui peraltro essi stessi ignorano le conseguenze, ed espande a dismisurale possibilità umane, in realtà per ragioni di profittoindividuale, ignorando la saggia avvertenza[1] che ci vuole discernimento e che non tutto è disponibile, anche se tecnicamente e finanziariamente è possibile. Ne va del nostro restare umani, in una interconnessione migliore possibile con la terra, il luogo dove è nata ogni forma di vita che conosciamo, compresa la nostra.Non è il diventare post-o transumani il desiderio che muove me e molte altre donne e un numero crescente di giovani uomini nella vita di ogni giorno e nella politica, una politica mossa dall’amore per il mondo e per la vita, alla ricerca di forme alte di civiltà, e fa leva sulla forza delle relazioni non strumentali e di fiducia, senza ignorare l’aiuto di tecnologie che siano a misura umana e del vivente.


A questa deriva in atto stanno cercando di fare da argine la consapevolezzae le pratiche politiche di molte e molti giovani – nomino solo Greta – che si attivano in relazioni mobilie intelligenti, in piccoli gruppi e grandi reti, si appassionano, discutono mettendosi in gioco in prima persona, e fanno sentire con tenacia la loro voce. Una voce che ora giustamente reclama anche il ritorno alla scuola – spazio delle differenze, delle relazioni e dell’incontro/confronto trasformativo – e la partecipazione creativa alla conoscenza, ben altra cosa dall’informazione. E non si sono fermate, anzi si sono moltiplicate,le iniziative di donne in molti luoghianche lontani del mondo a favore della creazione dilegami e di contesti politici di cura, di scambio di saperi vicini alla vita e lontani dal potere, di libere forme di pensiero e di esperienza, che ci convocano all’antico e nuovo desiderio di buen vivir[2].


E un argine auspico essere la presa di coscienza, diffusa dalla pandemia, della fragile preziosità dei nostri corpi, del vivente, della terra che ci ospita e delle loro connessioni. Come già spesso segnalato, il Covid ha fatto emergeree acceleratocontraddizioni e problemi già esistenti, quel capitalismo della catastrofe denunciato nell’Enciclica Laudato si’, e di cui ha scritto Naomi Klein (Una rivoluzione ci salverà. Perché ilcapitalismo non è sostenibile, 2015). E forse questa che stiamo vivendo non è un’emergenza, se non nel senso del manifestarsi di verità ignorate, perché altri virus verranno e saranno la normalità se non cambiamo rotta. È significativo, e al tempo stesso preoccupante, che un’attenzione più diffusa alle connessioni tra salute umana e salute del pianeta sia arrivata attraverso la tangibilità inoppugnabile della malattia e della morte, che ha toccato i corpi prima ancora delle menti, dopo che da decenni gli scienziati, quelli almeno capaci di lungimiranza più dei politici, ci mettono in guardia dai pericoli di uno sviluppo ingiusto e insostenibile. Sappiamo che la presa di coscienza si radica nell’esperienza personale, ma può nutrirsi anche del confronto con verità, pur provvisorie, che provengono dalla ricerca scientifica, soprattutto quando questa è indipendente dai condizionamenti dei poteri economici, aperta al vaglio di una molteplicità di sguardi e di saperi, anche dei cosiddetti incompetenti, e disposta all’autocorrezione. Ilaria Capua, una virologa di cui mi fido pur non condividendo tutto del suo pensiero, è molto attenta a non cadere inverità assolute, e riconosce spesso di non sapere, pur dando messaggi di fiducia. Come altre studiose di cui mi fido anche perché poco inclini al narcisismo sulla scena mediatica, è consapevoledell’incertezza in cui più o meno tutti siamo immersi, esperti compresi, e del fatto che i numericircolanti della pandemia sono incerti e solo indicativi, e con autoritàdenuncia le viralità dei media accreditati, e non solo dei social media, come amplificatori della paura e in grado di influenzare con messaggi ambigui l’evoluzione della pandemia.


Un altro flash:una recente notizia dal titolo Trovate microplastiche nella placenta umana: è la prima volta nella storia,che dà conto dei risultati di una ricerca di studiose e medici dell’ospedale Fatebenefratelli e del Politecnico delle Marche pubblicata sulla rivista scientifica “Enviromental International”. Riporto il commento del medico direttore della ricerca: “È come avere un bambino cyborg, misto tra entità biologiche ed entità inorganiche, probabilmente molto dannose per il sistema immunitario e per la crescita fisica del bambino. Le madri sono rimaste scioccate”.Leggendo, non ho potuto fare a meno di associarlo a un articolo diHélène Rouch dal titolo La placenta come terzoapparso nel numero della rivista “Inchiesta” curato da Luce Irigaray nel 1987. L’autrice, Hélène Rouch, una biologa femminista che ha fatto parte del collettivo Psychanalyse et Politique, ha risignificato sulla base dei suoi studi, rigorosi ma lontani da paradigmi meccanicistici, il ruolo della placenta nell’economia naturale degli scambi tra corpo materno e feto.La placenta è un terzo che media l’interdipendenza in un rapporto duale caratterizzato da uno squilibrio positivo, rispettoso della vita di entrambi, spazio di coesistenza e di costruzione dell’alterità che non prevede né separazione né fusione tra i due, e in cui lo scambio non comporta sottrazioni al corpo materno,al contrario, si configura come un continuo gioco al rialzo, relazionale e cooperativo pur nella disparità, il cui esito è la creazione di nuova vita.


Se perfino la placenta, bene intimo, personale e universale, non solo per le donne che vogliono diventare madri, ma per tutte e tutti noi che siamo venuti a mondo da una donna, è minacciata dall’inquinamento ambientale, opera dell’uomo sedicente sapiens, non possiamo non considerare che siamo dentro una crisi di civiltà globale, da cui possiamo saltar fuori, come propone Naomi Klein,facendo leva sui cambiamenti climatici come “forza catalizzatrice per una trasformazione generale positiva”, “smettendo di scaricare il problema agli ambientalisti”.E non si tratta di una transizione ecologica in cui produzione e consumo diventino più green, ma di una vera profonda conversione:quel salto di civiltà “in cui le donne non rivendicano qualcosa per sé ma aprono una strada per tutti”, di cui parla il documentoSalto della specie[3] afirma Dominijanni e altre.A differenza di altre specie, nel bene e nel male abbiamo la capacità di pensiero, immaginazione e giudizio,a nessun’altra specie è data la possibilità di decidere della sua stessa estinzione.

Bisognerà riconsiderare anche la nostra politica, che, se vuol essere efficace e generativa di desiderio, non può considerare la natura e la salute della terra come tema che interessa solo l’ecofemminismo nelle sue varie declinazioni, i cui contributi vanno pur riconosciuti.Si tratta di aprire un orizzonte più ampio, allargare confiducia le alleanze lasciando da parte le ideologie che generano schieramenti,e superare i dualismi talvolta ancora presenti anche nel nostro pensiero e nel nostro immaginario: per esempio il dualismo natura/cultura, e la diffidenza verso il tema della natura dovuta al nostro giusto rifiuto della storica identificazione maschile-patriarcale donne-natura. Ricordo la libertà mostrata nell’affrontare l’acceso dibattito sul tema dell’utero in affitto, al quale Luisa Muraro ha dedicato il libro profondo e dirimente, già citato,L’anima del corpo, in cui la parola natura è stata sdoganata in senso critico. Scrive Luisa: “parlare della natura si può, anzi si deve, ce lo insegna l’ecologia. Gli esseri umani sono il fruttodi un’evoluzione che continua nella cultura grazie alla parola e alla libertà, ma che non può perdere le sue radici naturali, pena l’autodistruzione”. Vorrei vedere all’opera una simile libertà nella necessaria conversione del pensiero e dell’anima verso la desiderabilità di nuove, più attente e più felici relazioni con la natura. Le relazioni che noi donne abbiamo con la natura sono qualcosa di intimamente, anche inconsciamente, sentito e vissuto. E la natura non è qualcosa che sta là fuori di noi, oggettivabile: ne facciamo parte (“siamo avvolti dalla natura e l’avvolgiamo a nostra volta” scrive Chiara Zamboni[4]), e in più ne condividiamo la generatività. Abbiamo la possibilità, più degli uomini, ditrasformare le attuali interconnessioni maligne in interconnessioni sane e generative per tutti.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 11 febbraio 2021)



[1]v. Luisa Muraro, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, La Scuola, 2016.

[2]v. il prossimo ciclo di incontri “Conversazioni dal Sud”, a cura di Maria Teresa Muraca.

[3]Reperibile su http://www.libreriadelledonne.it del 12/5/2020. 

[4] Chiara Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Mimesis 2020, p.13.

Print Friendly, PDF & Email