11 Febbraio 2021
#VD3

Vincoli, connessioni, relazioni – Introduzione


Introduzione alla redazione aperta di ViaDogana3 – Vincoli, connessioni, relazioni, 7 febbraio 2021


di Traudel Sattler


Questo incontro parte da un luogo fisico, la Libreria delle donne di Milano dove mi trovo io insieme ad alcune altre. È la pratica che sta emergendo ora che non possiamo trovarci in presenza: mantenere il radicamento al luogo e ai corpi è fondamentale e fa parte della politica stessa. Prima di cominciare vogliamo ringraziare Laura Colombo che è sempre qui, insieme a Laura Giordano, e Valeria Spirolazzi da remoto: mettono a disposizione le loro conoscenze tecnologiche permettendoci di comunicare anche a distanza. Laura Colombo ha impostato un potenziamento di zoom, l’ultima volta ci è dispiaciuto molto dover escludere parecchie donne che avrebbero voluto esserci. Ringraziamo anche Clara Jourdan che gestisce le iscrizioni.

L’incontro di dicembre, che ho trovato particolarmente ricco e articolato, è stato il primo di questa esperienza nuova, tutta online: ha dimostrato che se c’è il bisogno e il desiderio di scambio, anche questa modalità a distanza ne è vivificata. La gioia di ritrovarsi era palpabile. Sicuramente è stato anche l’argomento proposto, la libertà, che ha dato slancio al dibattito e ha innescato tanti contributi di verità soggettiva. 

Due interventi in particolare ci sono sembrati densi di sviluppi interessanti: Giuliana Giulietti di Livorno, la quale si è riallacciata alla “Carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe” e alla costatazione di Ida Dominijanni sulla latitanza del desiderio. Abbiamo chiesto a Giuliana di intervenire oggi per riprendere quel filo, per aprire la questione della pratica politica che va ripensata e rilanciata. Ormai è chiaro che questa esperienza della pandemia non sarà mai una semplice parentesi nelle nostre biografie e che abbiamo bisogno di elaborarla. Per questo il secondo filone, che si intreccia con il primo, è affidato ad Anna Maria Piussi, che in occasione dell’ultimo incontro aveva proposto «una riflessione radicale che sia anche azione sul nostro rapporto non solo con gli umani ma anche con il vivente». È già da alcuni mesi, infatti, che si dedica a questa ricerca, seguendo un desiderio che si è svegliato in lei grazie alla pandemia. Da molto tempo anche il movimento ecologista vede queste interconnessioni, ma spesso si rimane ad un livello etico, di responsabilità personale, e mi manca il passaggio dalla verità soggettiva, per cui non riesco a farmi prendere in prima persona. Sento la necessità di un affinamento del pensiero perché stiamo attraversando una crisi che è nel contempo sanitaria, ambientale, economica, sociale e politica, soprattutto in questi giorni, con la caduta del governo Conte ad opera di ciniche manovre di potere di stampo maschile. E nella situazione in cui ci troviamo oggi, io sento fortissimo il bisogno di scambio, di ricerca di senso per non farmi travolgere dalla rabbia e dal senso di impotenza.

Dicevo che ci troviamo di fronte a una crisi strutturale di tutti gli ambiti, ma nel contempo vediamo il manifestarsi di autorità femminile. La cultura della specializzazione non riesce a dare risposte adeguate a una realtà che sembra sfuggirci. Se ne sono accorte anche le stesse persone impegnate nella ricerca scientifica rafforzando l’approccio interdisciplinare, di per sé non nuovo, per affrontare l’emergenza Covid. Il nuovo sta nel fatto che le porte che si sono aperte sui laboratori di ricerca hanno fatto vedere moltissimi volti femminili, e molte volte la presa di parola pubblica ha portato il segno dell’autorità femminile.

Anche i grandi media hanno registrato che circola un protagonismo femminile: l’ho visto nelle retrospettive sull’anno 2020 che regolarmente vengono pubblicate a fine anno (il video del Corriere della sera dal titolo significativo: 2020, l’anno che ci ha tolto le parole, elenca dieci buone notizie, tra cui: «Donne in politica, sempre più leader»; Le Monde titola: Buone notizie che hanno segnato l’anno 2020, nonostante tutto, e cita tra gli altri «Environnment, justice, féminisme»[1]). Tuttavia, lo si annovera come buone notizie senza conseguenze. Inoltre salta all’occhio, anche qui, una visione frammentata della realtà: invece tutti questi ambiti sono cambiati proprio a causa dell’esserci delle donne.

E inaspettatamente, tra le donne stesse che hanno scelto di competere per un posto di potere, alcune hanno cominciato a nominare il di più femminile, e a mettere in luce la genealogia femminile e la fertilità della relazione tra donne: Kamala Harris nel suo discorso del 9 novembre scorso ha parlato di sua madre immigrata dall’India, ha valorizzato le generazioni di donne nere, asiatiche, ispaniche… che con la loro lotta le hanno aperto la strada. I media non hanno rilevato la forza simbolica delle sue parole; l’abbiamo fatto noi nella redazione del sito dando un titolo nostro a quel discorso: “Il senso di Kamala per la genealogia femminile”. È una nostra pratica importante dare, attraverso titoli redazionali e brevi introduzioni, un significato alle cose che capitano e sottrarre così il monopolio della rappresentazione a chi le lascia nell’indifferenziato o le legge in chiave emancipazionistica. Ci ha anche colpito Christine Lagarde in un’intervista pubblicata da Io donna il 2 gennaio 2021: parlando della relazione con Angela Merkel e Ursula von der Leyen, sottolinea la loro comunicazione diretta, fuori dai protocolli, e quindi più efficace. E aggiunge: «nessuna di noi voleva prendersi il merito a tutti i costi, né lasciare che il nostro ego intralciasse il lavoro altrui, e anche questo si è rivelato utile. Quindi direi meno vanità». UNA BELLA DIFFERENZA, dico io!

Vorrei anche parlare delle tante donne che non si trovano sulla scena illuminata della politica internazionale e che hanno tirato fuori, anche insieme ai colleghi maschi, molta creatività e inventiva in questa situazione che ci ha tolto tutte le certezze: moltissime insegnanti, per esempio, confrontate con la chiusura delle scuole, non si sono fatte prendere in prima istanza dall’angoscia di dovere affrontare l’ondata di tools e apps che la furia della digitalizzazione ci ha buttato addosso, ma hanno pensato per prima cosa a come salvare la relazione con alunne e alunni, tramite la consegna di materiali a casa, in bicicletta, telefonate personali con chi è isolato tra le mura domestiche, e apertura di blog per scambiare idee e proposte con colleghe e colleghi mai conosciuti prima.

Tutto questo, come abbiamo scritto nell’invito, indica un agire femminile imprevisto nel quale sono leggibili i segni di un nuovo futuro. La posta in gioco è un salto di civiltà, così come è stato messo in luce nel documento “Salto della specie” promosso da Ida Dominijanni. Per me è stato un testo fondamentale, l’ho condiviso spontaneamente anche se la pratica dei testi collettivi in realtà non corrisponde alla mia pratica; qui invece mi dicevo: sììì, queste parole corrispondono profondamente a ciò che sento e penso, dalla prima all’ultima riga! Infatti, prendendo le parole da quel testo, sostengo che quell’agire delle donne che ho citato prima, da Kamala Harris all’insegnante, «si nutre dell’esperienza storica femminile e vive da decenni nella politica messa al mondo dal femminismo» ed è segno di un cambiamento «che antepone la relazione e l’interdipendenza alle pretese arroganti dell’individuo sovrano, la vulnerabilità e la cura all’onnipotenza necrofila, il bene comune all’interesse parcellizzato e al profitto, l’immaginazione e l’invenzione politica alla reiterazione delle mosse del potere» (Salto della specie).

Proprio in questi giorni abbiamo sotto gli occhi quelle pretese arroganti dell’individuo sovrano e quindi cresce l’urgenza di interrogarci sulle pratiche e le mediazioni necessarie.

Sì, a me dà soddisfazione vedere circolare autorità e libertà femminile ai livelli più alti del governo di questo mondo, ma ciò non toglie che saltano fuori contraddizioni enormi: cito solo le ministre mute (in quel caso è stata molto importante la nuova mediazione che Luisa Muraro ha lanciato con la sua lettera aperta), penso anche a Nancy Pelosi che ammiravo moltissimo per la sua signoria e i suoi gesti clamorosi, per esempio stracciando il discorso di Trump. Sprizzava autorità femminile letteralmente da tutti i pori, quando diceva all’ex presidente «Io sono madre di cinque figli e nonna di nove nipoti e riconosco quando uno fa i capricci» – ma poi, ma poi: ai primi di gennaio ha avallato delle regole linguistiche per la camera dei rappresentanti che tolgono, nel nome di una politica di inclusione, parole come madre, padre, sorella fratello e i pronomi personali sessuati. E questa non è solo una tendenza nel House of Representatives, l’idea di un linguaggio inclusivo di “tutte le identità di genere” si sta diffondendo anche in Italia. Un pensiero, un linguaggio che vuole includere tutto tranne la propria soggettività.

La scommessa politica della differenza, infatti, richiede un rilancio continuo. Se la pandemia ha messo in circolazione concetti come libertà relazionale, vulnerabilità, corpo, interdipendenza che fino a un anno fa erano appannaggio del femminismo e ora hanno trovato circolazione perché aderenti alla realtà nuova, questo non deve metterci in una posizione di autocompiacimento (“l’abbiamo sempre detto…”) ma spingerci piuttosto ad affinare le pratiche e interrogarci su quali mediazioni si possono aprire, soprattutto quando c’è una urgenza come quella del nostro presente.

Il pensiero e la pratica della differenza, infatti, domandano consapevolezza soggettiva, senso della parzialità e capacità di relazionarsi, e nessuno di questi elementi può essere saltato, neanche di fronte all’urgenza.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 11 febbraio 2021)


[1] «Ambiente, giustizia, femminismo»

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