22 Febbraio 2016
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Viva Ida Magli, viva l’emancipazione

Un ricordo di Ida Magli, oggi ricordata solo come antieuropeista

di Monica Lanfranco

“Io mi considero una specie di ‘detective’: vado a caccia delle immagini   simboliche nascoste ovunque, perché è  lì  che si  annidano  i  nemici delle donne”.  Mi rispose così, un giorno del 1991, Ida Magli, che andai  a  trovare mentre preparavo “Parole per giovani donne  – 18 femministe   parlano alle ragazze d’oggi, libro ovviamente introvabile uscito nel 1993, che ora la mia amica Roberta Corradini sta trascrivendo per farne un ebook. Insieme a Anna del Bo Boffino, donna d’indole di certo più affabile di Magli, il cui carattere spigoloso non l’ha resa certo simpatica, è quella che  ricordo meno  rispetto all’incontro, ma nitidamente mi è rimasta impressa la schiettezza, il filo del pensiero che non ammette mediazioni. “Non posso dirmi né madre né sorella delle giovani  di  oggi, e non perché non abbia un’esperienza diretta di  questi legami. Ho un figlio e una sorella, ma non mi sento di prendere in considerazione alcun legame biologico come positivo per fondare un rapporto.
È la nostra storia, la nostra cultura a insegnarcelo: i rapporti biologici sono stati sempre fallimentari per le donne, perché le hanno costrette dentro a ruoli che sono diventati  prigioni  per il loro sesso. Per costruire un legame che sia in grado di produrre il passaggio di memoria è necessario andare oltre la propria realtà fisica e sessuale”. Parole  forti, durissime, pronunciate con  fermezza.  Le chiesi allora attraverso quale rapporto, se si escludono quelli di madre e di sorella, è possibile entrare in rapporto  con  le giovani  donne per  passare  loro parte del  patrimonio di conoscenza e di esperienza di vita.
“Ho sempre pensato, e ne sono fermamente convinta, che la base per creare rapporti fruttuosi sia la considerazione dell’altra persona come di un soggetto, che gode di piena titolarità, non importa se più giovane, di altro colore o lingua diversa. Come donna ho sperimentato l’ingiustizia di  essere considerata un negro  in mezzo ai  bianchi, dove in questo caso  i  bianchi erano i maschi, specialmente nel mio ambiente di lavoro, quello universitario. L’inferiorità nella quale ancora oggi le donne sono tenute non può essere combattuta, come una parte del femminismo di oggi propone, attraverso l’affermazione della differenza, e l’enfasi su alcuni aspetti della vita delle donne, come ad esempio la maternità. Non mi fraintenda: non dico assolutamente che le donne devono smettere di fare bambini. Il punto è che il progresso, la scienza, la cultura hanno proceduto nei secoli sganciandosi sempre di più dall’aspetto biologico dell’esistenza. Pensiamo alle tecniche di fecondazione artificiale: oggi è possibile creare una vita senza più bisogno del rapporto fisico tra i  genitori.
Ormai viviamo in un mondo che, dall’età della pietra in poi, ha visto la nostra specie animale costruire incessantemente strumenti sempre più sofisticati per governare il mondo. Noi li chiamiamo in gergo antropologico ‘recettori a distanza’: sono l’auto che ha sostituito i nostri piedi, le macchine nell’industria che hanno soppiantato l’operaio, il telefono che ha annullato le distanze, solo per citare alcune delle invenzioni umane. Non dico che questo sia un bene, ma da antropologa non posso evitare di segnalare che le donne, se vogliono stare dentro la storia e la cultura del nostro tempo senza essere subalterne devono smetterla di indicare la biologia come una strada positiva, perché la maternità come valore non è nella direzione della cultura così come essa si sta evolvendo”. Ma così facendo, le chiesi, non si incoraggiano le giovani a seguire esempi e modelli maschili, e non si corre il rischio di una omologazione delle donne con gli uomini?
“Non credo, rispose. Perché se è vero che noi occidentali siamo indubbiamente molto avanti rispetto al resto delle donne nel mondo, è tragicamente vero che rappresentiamo una netta minoranza; ne esistono ancora milioni e milioni che non hanno neppure iniziato quello che io considero un passo fondamentale per il mio sesso, cioè l’emancipazione. Noi l’abbiamo in parte realizzata, ma è bene non dare mai nulla per   scontato.  Lo dico sempre alle mie allieve: so che rischiato, proprio perché donna, di non poter accedere alla cultura che era invece a disposizione dei maschi, e non mi vergogno a dire che la mia fortuna è stata la morte di mio padre, militare, per il quale lo studio delle figlie non era assolutamente essenziale, e quindi da non incoraggiare, essendo noi ‘destinate’ alla famiglia e ai figli. Per questo non mi sento di rigettare in blocco tutto quello che, pur essendo stato creato dagli uomini. Costituisce la cultura e la scienza del nostro tempo. Penso ci sia bisogno di noi dentro questa cultura e questa scienza per cambiarle e per cambiare anche gli uomini. La presenza di più donne nei luoghi dove si fa sapere è indispensabile per continuare il lungo cammino necessario a modificare le strutture stesse del sapere”.
Considerando che queste parole sono state dette nei  primi anni ’90 sarebbe importante  tornare a  rileggere alcuni libri di  questa  intellettuale, che  come faceva notare la studiosa femminista Lea Melandri sui social rischia, nell’Italia mediatica immemore, di essere citata, ora che è morta,   solo come antieuropeista. Libri come “Viaggio intorno all’uomo bianco”   e “La femmina dell’uomo” sono pietre miliari  per costruirsi anticorpi solidi  per difendersi  dalla liquidità di superficie dei nostri tempi.

 

22 febbraio 2016

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