2 Ottobre 2014
www.massimolizzi.it

Vogliono che si parli di loro, chi? Gli uomini violenti e non.

di Massimo Lizzi

 

«Diteci se siamo dei mostri» Lo chiede un gruppo di detenuti condannati per reati di violenza sulle donne, stupratori e femminicidi. Gli dà voce il Fatto Quotidiano con un articolo di Ferruccio Sansa.

Il giornalista, oltre la soglia del carcere, è disorientato, vede immagini sdoppiate, non riesce a credere che quelle persone, già manager, artigiani, operai, davanti a lui in carne e ossa, dai modi franchi, gli occhi scuri, gli occhi azzurri, le mani curate, le dita affusolate, disegnatori di boschi e fiori sui muri della cella, abbiano potuto violentare e uccidere. Il giornalista sente la sofferenza e il dolore di questi uomini nell’affrontare le loro responsabilità, nell’aver vissuto i momenti più duri, l’arresto, gli articoli sui giornali, la scoperta di essere capaci di compiere una violenza così terribile. Anche se meno terribile di quella di uno stragista, che di donne con una sola bomba ne ha uccise ben di più: il giornalista percepisce la loro gratitudine, per essere lì a parlare con loro, perchè questi uomini sono considerati i più infami tra i criminali dagli altri detenuti, forse perchè la forza misteriosa e tremenda del sesso li fa sembrare peggio.

I detenuti intervistati partecipano ad un percorso di recupero con una psicanalista, ammettono le proprie responsabilità e si raccontano senza reticenze e senza farsi sconti. Anche se a leggere l’articolo si nota poco. Nessuno sa come sia potuto accadere. Uno aveva voglia di primavera, uno si è sentito provocato, uno voleva punire quella che gli veniva dietro, uno ha avuto la moglie malata ed ha violentato la dipendente, uno è caduto nella trappola come capita anche ai politici, uno ha reagito ad una coltellata perchè lei, chissà come mai, ha ritenuto di doversi difendere in quel modo. Ma quei gesti non li riflettono, sono come buchi neri, capivano quel che succedeva, ma non riuscivano a fermarsi. Dentro di sé vedono il male, ma anche il bene, non sono cattivi, non meritano di essere condannati a vita.

Sono dei mostri? La domanda è manipolatoria. Fa leva sul senso di colpa di chi è chiamato a giudicare. Se dai una risposta diversa dal no sei demonizzante. Un giustiziere che se ne tira fuori, se sei un uomo. Una vendicativa, rancorosa, priva di comprensione e di pietà, se sei una donna. Certo che no, nessuno è un mostro. Neanche i terroristi, gli stragisti, i lapidatori talebani, gli sgozzatori dell’Isis, neppure i nazisti di Auschwitz, Buchenwald, Dachau. E’ una risposta ovvia e banale, perchè fartela dire? La loro umanità non è forse riconosciuta? Nessuno li ha linciati, torturati, condannati a morte. Hanno avuto un processo, il diritto alla difesa, una sentenza ad una pena finita, con sentenza motivata, a cui possono fare appello. Hanno accesso a corsi di recupero e forse a pene alternative.

Tutte cose a cui sono favorevole. Come, immagino, molti lettori del Fatto. Dunque, cosa vuole comunicarci l’articolo, cosa ci chiede? Vuole persuaderci ad approvare un’amnistia, un indulto, ad essere garantisti? Eppure è il giornale di Marco Travaglio, non quello di Piero Sansonetti. Infatti, non ci mostra l’umanità dei condannati per corruzione politica o per mafia. Ci mostra quella del femminicida. Perchè?

Le donne già riconoscono l’umanità dei violenti. Ne sono figlie, ne sono sorelle, li hanno per fidanzati, per mariti, per amici, per datori e colleghi di lavoro. Quasi mai li denunciano, tante volte li perdonano, credono alle loro promesse, ai loro pentimenti, gli offrono l’ennesima possibilità, andando incontro a nuove sofferenze, rischiando la pelle, talvolta rimettendoci la vita. Quell’ambivalenza, quell’umanità, è la trappola nella quale tante donne rimangono imprigionate. Ora, arriva un giornalista maschio a spiegare che quegli uomini sono ambivalenti, sono umani. Senza però spiegare che quell’ambivalenza, è da sempre uno dei meccanismi, forse il più efficace, attraverso cui la violenza e il dominio maschile si perpetuano.

A parte qualche giustiziere di circostanza, magari dietro le sbarre anche lui, gli uomini dal canto loro sono fin troppo comprensivi. Comprensivi sono gli amici, come emerge dai racconti, per i quali il 90 per cento degli uomini, nelle stesse circostanze, se provocati, agirebbero allo stesso modo, e come leggiamo nell’articolo, lei provoca, lei ci sta, lei viene dietro, lei si difende sconsideratamente. Comprensivi sono i giornalisti che ogni volta ci raccontano che lui era una brava persona, normale come tanti altri, divenuto fragile, depresso, geloso, sotto stress per uno sfratto, un licenziamento, un fallimento, ha avuto un raptus di follia, al culmine di una lite, poichè lei gli ha fatto qualcosa e lui ha reagito, è così si è rovinato la vita. La sua.

Il quadretto dei racconti dei detenuti per violenza, non è diverso dai tanti resoconti di cronaca, dove lui violenta o uccide lei, raccontati dal punto di vista di lui, che per lui suscitano incredulità, comprensione, empatia. La violenza scissa dall’autore. La violenza agisce l’autore. L’autore scisso in se stesso: una parte violenta e una parte stupita che contempla la propria violenza. Il suo vero io ovviamente è la parte contemplatrice. Nulla è raccontato sugli atteggiamenti, sui comportamenti, sui maltrattamenti che precedono il gesto estremo, rappresentato come un atto folle e solitario, che irrompe sorprendente nel contesto di una vita normale e tranquilla. Nulla è raccontato sulla concezione della donna che alberga nella mente di questi uomini. Nulla si iscrive nella diseguaglianza del rapporto sociale tra i sessi, di cui la violenza di genere è espressione e funzione. Il giornalista vede solo la forza misteriosa del sesso che ci fa esagerare l’infamia di questi reati. Il femminicidio, mai nominato nell’articolo, un reato a sfondo sessuale?

Uno stragista può avere ucciso più donne e più bambini di un femminicida. Ma evidenziarlo, ammesso sia corretto fare paragoni e stabilire graduatorie, finisce solo per sminuire e relativizzare la violenza sulle donne. Il terrorista, il mafioso, il criminale comune non uccide le donne perché si sottraggono al loro ruolo di genere. Non uccide persone da lui dipendenti affettivamente o economicamente. La violenza maschile da quella fonte proviene. Da uomini a cui le vittime sono legate negli affetti, in cui hanno riposto fiducia, a cui si sono rese, almeno in parte, dipendenti e vulnerabili. Una violenza che non è solo un fatto episodico per quanto grave e drammatico, ma un intero contesto di relazione e convivenza. Che spesso e volentieri, operatori della giustizia, della sanità, dell’informazione, scambiano per conflitto. Un conflitto durante il quale, ad un certo punto, lui misteriorsamente, solo per un attimo fatale si fa mostro. Prima è normale, poi torna normale.

Print Friendly, PDF & Email