di Traudel Sattler
Introduzione all’incontro di Via Dogana 3: Dal 13 novembre 2016 al 15 gennaio 2017 senza soluzione di continuità. Come può il vecchio Principe Femminismo risvegliare la sempre Giovane Voglia di cambiare il mondo, la quale dorme della grossa (o finge), nonostante l’orribile chiasso che si sente?
Comincio riprendendo il filo di Lia Cigarini all’ultima redazione aperta di VD il 13 novembre scorso. Nella sua lettura del presente, Lia aveva fatto notare che oggi sempre più donne si dichiarano femministe: scrittrici, artiste, registe, giornaliste…, e che le sembrava che tutto ciò c’entrasse molto col pensiero della differenza. Mentre i media riferivano che le giovani donne dichiaravano che il femminismo aveva avuto molti meriti ma che oggi a loro non aveva più niente da dire. Eppure, ha ricordato Lia, oggi accade che negli Stati Uniti traducano L’ordine simbolico della madre e in Francia Non credere di avere dei diritti. E a Londra una riunione di cinquanta giovani donne ha discusso del femminismo italiano, ritenendolo, appunto, più fedele alla rivolta degli anni Settanta.
Io posso aggiungere che Non credere di avere dei diritti lo leggono anche a Berlino, sono stata invitata nel mese di luglio dell’anno scorso: anche lì erano giovani donne che in questo libro hanno trovato indicazioni per la loro pratica politica. E pochi giorni fa ci è arrivata una richiesta da Zurigo: alcune giovani ci propongono di venire a Milano per uno scambio. Altre ancora ci hanno trovate, sempre attraverso questo libro: una ricercatrice dal Canada, un’artista australiana…
Dico tutto questo non per fare del trionfalismo: sono convinta che è accaduto non per caso. Il pensiero e la pratica della differenza, la pratica di parola, l’importanza del simbolico, vengono intercettate. Soprattutto da chi sta cercando… cercando magari una cosa per scoprirne un’altra.
E così è accaduto che quasi esattamente un anno fa, domenica 17 gennaio 2016, ci siamo trovate qui al Circolo della rosa (alcune fondatrici della Libreria delle donne, Lia Cigarini, Giordana Masotto, Silvia Motta, Luisa Muraro, poi io) con un gruppo di giovani francesi che stavano cercando qualcosa: si presentavano come «collettivo franco-italiano», giovani donne e uomini «che vivono in varie città della Francia e che hanno in comune il desiderio di legare riflessione politica e pratiche rivoluzionarie».
Avevano scoperto Non credere di avere dei diritti facendo una ricerca sull’Autonomia italiana negli anni Settanta. Raccontano: «Siamo rimasti colpiti dal processo di ricerca raccontato nel libro … che rimette continuamente in discussione le scelte politiche fatte e assunte collettivamente. Soprattutto ci ha interessato una forma di politica che mischia vita vissuta e lotta politica. Ci è sembrato strano che questo libro non sia già stato tradotto in lingua francese perché parla spesso dei legami con la Francia e dei rapporti tra femministe italiane e francesi. E quindi fa luce sulle dinamiche di circolazione del pensiero politico e sulla condivisione delle pratiche di lotta durante gli anni Settanta».
Così hanno deciso di tradurre il libro e di chiedere un incontro con noi.
Io mi sono sentita subito coinvolta in prima persona, perché avevo tradotto Non credere in tedesco, nel lontano ’88, e poi avevo accompagnato il libro, con altre della Libreria, in Germania, creando moltissimi scambi che durano nel tempo. E poi perché parlo il francese, più o meno…
In occasione di quell’incontro, un anno fa, avevamo chiesto di poter rileggere la traduzione francese prima della pubblicazione e di restare in contatto. Dopo poco tempo sono arrivate una serie di email con oggetto «aiuta!» con richieste di chiarimenti per alcuni concetti difficili da afferrare. Ci siamo messe a rileggere la loro traduzione, Luisa Muraro una parte, poi Silvia Baratella e io. Io e Silvia ci siamo anche appassionate a seguire passo passo i capitoli, con grande sorpresa del collettivo di traduzione che non si aspettava una rilettura così approfondita ma hanno accettato, per questo motivo, di rimandare la pubblicazione. Hanno accolto i nostri commenti, hanno espresso stupore quando non eravamo d’accordo con l’accostamento della Libreria all’Autonomia degli anni ’70 ma poi l’hanno accettato l’obiezione.
Il libro è stato tradotto a più mani, maschili e femminili, come spiegano nella prefazione, che invece è stata scritta dalle sole traduttrici e rispecchia le intense discussioni che hanno accompagnato il lavoro di traduzione.
Vorrei riprendere alcuni pensieri da questa prefazione che mi sembra una interlocuzione molto interessante da parte di una generazione che viene dopo di noi e che cerca di leggere questo libro alla luce del presente.
Il testo è bellissimo perché racconta il processo di trasformazione che il libro ha innescato in loro man mano che lo stavano scoprendo e traducendo. Senza sapere che cosa avrebbero trovato sono andate a cercare in Non credere di avere dei diritti qualcosa di importante che il femminismo interroga e che invece era rimasto insignificante nelle loro pratiche politiche.
Le loro esperienze femministe precedenti, infatti, non avevano soddisfatto questa ricerca. “Navigando” nel femminismo avevano trovato degli ostacoli: il primo era il considerarsi una donna. Questa cosa le rimandava soprattutto all’identità femminile comunemente considerata, un’idea astratta e asfissiante, e così alcune di loro avevano preferito cancellare la differenza sessuale, renderla insignificante, per lottare nei contesti che i francesi chiamano “mixité”, contro le identità e le norme sessuali. Questo aveva dato loro sì una certa libertà, tuttavia a qualcuna è venuto il dubbio di aver abbandonato, con questa scelta, un terreno di lotta.
Un altro ostacolo rispetto al femminismo così come l’avevano conosciuto era il fatto di non riconoscersi nelle figura delle donna oppressa che questo femminismo proponeva.
Alcune di loro avevano anche fatto esperienze con gruppi, spesso gruppi di donne, che lavoravano sul corpo e la medicina.
Poi hanno incrociato Non credere di avere dei diritti.
Raccontano che hanno affrontato il testo non senza una certa sfiducia: temevano l’essenzialismo. Per scoprire invece che «queste donne [le autrici] procedono in una maniera che resiste a ogni essenzializzazione perché si sono impegnate a non dire niente che non sia stato sperimentato a lungo», poi perché non si parla mai in nome di altre e soprattutto perché non si definisce mai la differenza sessuale, non le si dà un contenuto.
In questo approccio trovano come degli elementi di un metodo per significare la differenza, anche se “metodo” non è la parola giusta, comunque un’ispirazione per futuri passi. E percepiscono una «nuova libertà»: dire che sono una donna arricchisce la categoria donna della nostra propria singolarità, invece di rinchiuderci all’interno di una categoria preesistente.
Ed è proprio l’arricchimento del proprio universo simbolico che toglie lo sguardo dall’oppressione maschile e dai torti subiti, senza comunque negarli. Le traduttrici si rendono conto che ciò permette anche «una certa generosità nei confronti degli uomini», l’idea che esista un desiderio maschile non legato alla dominazione. E precisano subito che non si tratta di un credito concesso agli uomini, «ma una fiducia data a noi stesse, alla nostra capacità di stabilire con loro una relazione giusta – giusta nel senso di justesse e non di justice».
Qui leggono un’apertura del significato di differenza, cosa importante per la lettura del libro oggi: «Ci siamo più volte urtate con la difficoltà di dare seguito al loro insegnamento, e siamo consapevoli che non è possibile leggere questo libro nella stessa maniera come all’epoca della sua pubblicazione, ignorando l’apertura del femminismo ai movimenti transgender. Nonostante tutto vogliamo credere che le loro esperienze possano essere lette al di là di una differenza che resterebbe esclusivamente femminile, anche se non possiamo prevedere se questa impresa riuscirà. Questa speranza ci viene dal fatto che il pensiero della differenza, secondo la nostra lettura, ci sembra incompatibile con l’idea di un’accumulazione di ritratti autonomi di ogni differenza: ognuna di queste differenze ci sembra essere invitata a mettersi alla prova dei contatti con l’altro».
Ho sottolineato “insegnamento” e “vogliamo credere” perché man mano si addentrano nel testo si capisce che alla sfiducia iniziale subentra la fiducia, più volte parlano di “insegnamento”, “lezione”, “credere”, “vogliamo credere”: danno fiducia a queste parole, a questa pratica.
L’interazione con il testo si sviluppa in un processo che chiamano «mise en abyme», espressione che indica il rispecchiamento di una macrostruttura in una microstruttura, una storia che si riflette in un’altra storia, all’infinito: «Ci aveva convinto l’affermazione secondo la quale la nostra libertà non poteva essere acquisita se non a prezzo del pagamento del debito simbolico nei confronti delle donne che ci hanno preceduto, e sapevamo che la traduzione di questo libro costituiva già una prima pietra che noi abbiamo posato per la nostra genealogia femminile».
Io mi sono riconosciuta in queste parole, era successo anche a me: oltre al piacere della traduzione, oltre al guadagno che ho avuto in termini di nuovi contatti politici e alla soddisfazione di portare qualcosa di importante nel mio paese di origine, c’è stato questo senso della restituzione.
Interloquendo con il testo, le traduttrici parlano anche di “eredità”, e sottolineano che un elemento del quale si assumono pienamente l’eredità è il legame tra vita e politica: anche «se è vero che il detto il privato è politico di allora va riguardato davanti alla colonizzazione progressiva della sfera privata, oggi bisognerebbe chiedersi piuttosto cosa significa per la vita privata di essere politicizzata».
Infatti, si chiedono come reagire al fatto che oggi libertà e differenza vengano fagocitate dalla politica e dal capitalismo à la Mc Donald. Che la differenza sembra addirittura «costituire il combustibile della fabbrica democratica», oppure viene inglobata in nuove identità sociali, dove l’identità è ridotta a un questionario a scelte multiple, come sulla pagina Facebook dove il tuo profilo è ridotto in caselline, e ogni novità viene subito inglobata «per affinare la matrice universale».
Qui siamo esattamente alla questione che Giordana Masotto aveva posto nel suo contributo all’ultimo incontro di Via Dogana, quando ha affermato che libertà è una delle parole più usate e consumate nel nostro tempo, e che la differenza sessuale rischia di annegare nel mare della diversity.
Cercando, traducendo e discutendo, il collettivo ha trovato elementi di risposta nel libro stesso: nella proposta politica di una libertà che loro chiamano «libertà rivoluzionaria» e che resiste alla cattura perché si basa sulla relazione. La libertà relazionale come baluardo contro lo scippo.
Ma la “lezione” del libro ancora più sottile che hanno trovato, è la necessità della mediazione che significa un aprirsi all’altro. Tutt’altro che cercare di trovare un equilibrio, anzi è un rischio, ci vuole il gusto del rischio. «L’atto rivoluzionario più profondo è quello di accettare l’imprudenza necessaria alla mediazione.»
Ora che il libro è pronto hanno pensato giustamente che non lo possono affidare semplicemente al mercato senza accompagnarlo: subito hanno cominciato a programmare una serie di incontri di presentazione in varie città della Francia, a partire dalla Libreria delle donne di Parigi. La Librairie des femmes fa parte della storia del femminismo francese e il legame storico con il libro italiano è evidente, anche se «non abbiamo trovato nessun legame attuale con Non credere di avere dei diritti, il che ci ha molto sorpreso – ci scrivono in una email le traduttrici – visto il bellissimo passaggio del libro che racconta “l’incontro con le francesi”. Ci siamo dette che la presentazione di questo libro darà sicuramente luogo a una discussione appassionante, ma non sarà sicuramente facile. Voilà».
(Via Dogana 3, 20 gennaio 2017 )